Dipendenza da gioco: guarire si può

01 settembre 2016
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Dipendenza da gioco: guarire si può



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«Giocare d'azzardo può creare dipendenza». Così esordisce Fabio Pellerano, educatore professionale presso il Servizio per le Dipendenze della Sanità pubblica di Torino, nel suo libro «Azzardopatia», pubblicato da Edizioni Amrita nel 2015. Il gioco in sé, che si tratti di slot-machine, poker, Gratta e Vinci o scommesse su corse di cavalli, quando diventa un'abitudine quotidiana, «non rappresenta dunque un vizio, ma una vera e propria patologia, che tuttavia può essere curata».

Pellerano ha raccolto una serie di percorsi per raggiungere la guarigione e ha individuato le modalità di gestione delle ricadute - molto frequenti in questi casi - nonché i consigli per i familiari del giocatore d'azzardo patologico, che rappresentano una parte fondamentale per guarire dalla dipendenza. Difatti, «alle difficoltà che normalmente incontra una persona che decide di abbandonare il gioco d'azzardo va ad aggiungersi poi la sfiducia da parte di chi vede il giocatore come un individuo che promette e si dispera, ma che in fondo non cambierà mai».

Leggendo sui giornali alcune testimonianze dirette, si nota quanto le persone affette dalla problematica - che in Italia è una vera e propria piaga sociale - diano addosso a loro stesse per i danni inflitti alla cerchia dei propri affetti, sia ai parenti che agli amici, ostinandosi a non accettare la realtà incancellabile del proprio passato.

In tal senso, «ogni ex giocatore farebbe bene a riorganizzare i propri pensieri e atteggiamenti in modo tale da potersi difendere da un possibile riaccendersi dell'impulso al gioco». Viene in mente un parallelismo con quello che succede in amore: «Se dopo tanto tempo incontrate in strada la vostra vecchia fiamma, probabilmente vi farà ancora effetto ricordare i bei momenti vissuti insieme, ma se siete preparati, dopo un primo turbamento riprenderete tranquillamente il vostro cammino, senza far nulla di cui poi potreste pentirvi».

La parola stessa "azzardo", che deriva dall'arabo az-zajr (dado), ha una radice lontanissima: «Parliamo quindi di un comportamento antico, che si perde nella memoria dei popoli. A metà del XIX secolo anche la letteratura prese a occuparsi del fenomeno, descrivendo soprattutto la frenesia e i danni che portava». Nel nostro Paese, come spiega Pellerano, mentre un tempo c'era solo il Totocalcio, dal '92 sono stati introdotti molti nuovi giochi e questo in qualche modo sembra aver agevolato l'accentuazione della problematica sotto un profilo psicopatologico.

Fatte queste premesse, sorge un quesito: ludopatici si nasce o si diventa? «Alcune ricerche hanno portato alla scoperta che esistono delle basi biologiche che predispongono determinate persone a giocare d'azzardo: si tratterebbe di uomini e donne con una certa predisposizione al rischio e alla ricerca di sensazioni forti». Tuttavia, a "scommettere" soldi s'impara anche, «perché fin da piccoli, nell'ambiente familiare oppure durante lo sviluppo e in età adulta, si può essere esposti al gioco d'azzardo e trovarlo assolutamente normale».

Il tema è tra i più delicati e si devono evitare, come sempre, generalizzazioni, tuttavia sui metodi di risoluzione Pellerano è piuttosto perentorio: «Occorre prendere il coraggio a quattro mani e dirsi che non è più opportuno continuare a giocare. Credere che si giocherà sempre meno e che un giorno ci si sveglierà non avendo più voglia di giocare è un pensiero non realistico». Insomma, smettere di fumare, in confronto, sembra un gioco da ragazzi.

Maria Elena Capitanio



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