14 dicembre 2007
Aggiornamenti e focus
Più che i fattori, il rischio
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La pressione? Deve essere bassa! Il colesterolo? Anche! Eppure, da sempre, anche in Italia, si documenta che spesso gli ipertesi non raggiungono gli obiettivi pervenisti per il trattamento e lo stesso, da dati esteri, però, pare accadere per le persone che, con farmaci o con la dieta, sono curate per l'iperlipidemia. Non pare essere colpa dei trattamenti in sé: checché ne dicano fonti interessate, le aziende, i medicinali per aggredire entrambi i fattori ce ne sono da parecchio tempo, nel caso dell'ipercolesterolemia la prima statina ha più di 20 anni, e i successivi arrivi hanno apportato probabilmente dei miglioramenti, ma la situazione era già buona. Forse, si chiedono i ricercatori, la difficoltà nell'ottenere dei risultati dipende da fattori estranei al farmaco. Il concetto chiave, come ben esprime un editoriale degli Archives of Internal Medicine, è passare dal trattamento dei singoli fattori di rischio, presi ognuno per sé, al trattamento del rischio cardiovascolare nel suo complesso.
In effetti le due cose non sono sovrapponibili e l'articolo fa un esempio chiaro anche per chi medico non è. Si prenda un uomo fumatore di 60 anni con pressione arteriosa di 150/90 mmHg (un po' alta ma non drammatica), colesterolemia totale di 200 mg/dl (quindi sul filo della norma) e colesterolo HDL (quello protettivo) pari a 35 mg/dl (più basso del desiderabile); si prenda la sorella di quest'uomo, che di anni ne ha 50, non fuma e ha la pressione normale (130/75) ma ha una colesterolemia totale molto elevata (280 mg/dl) con HDL a 75 mg/dl (un valore buono). Ebbene a dispetto delle apparenze è il maschio quello in cui si dovrebbe avviare la terapia con le statine perché malgrado la spiccata ipercolesterolemia della sorella, il rischio che questa vada incontro a un evento cardiovascolare di lì a cinque anni è del 2% circa, mentre per l'uomo è 10 volte superiore. Insomma, si deve passare da un dato particolare al dato più impattante. Però, anche calcolare il rischio cardiovascolare complessivo non è semplice: vanno considerati, oltre ai parametri clinici già detti, età, sesso, abitudini. Insomma si deve prendere carta e penna e cominciare a fare di conto: certo, come scrive l'autore dell'editoriale, non si tratta di astrofisica, ma insomma non è così semplice.
Molto possono fare in questo senso i sistemi informatizzati di cartella clinica: ve ne sono alcuni che permettono di ricavare il rischio cardiovascolare sulla base dei dati registrati per il singolo paziente. Ma poi, il paziente è in grado di afferrare un discorso che è in termini solo probabilistici? Non c'è sicurezza al riguardo, anzi. Più azzeccata può invece essere l'idea messa in campo da una ricerca, cui l'editoriale fa ampio riferimento, dove si è adoperato un altro concetto. Quella dell'età cardiovascolare. In pratica, si traduce in termini di invecchiamento precoce del sistema cardiovascolare l'effetto dei diversi fattori di rischio presenti. Per tornare all'esempio di prima, si potrebbee dire al signore di 60 anni che il suo cuore (e annessi) ha un'età di 75 anni. Difficile equivocare un dato esposto in questi termini e, in effetti, nella ricerca citata questo modo di presentare la situazione ha garantito un miglioramento nei risultati della terapia con le statine: non enorme ma significativo.Comunque, non è solo colpa dei pazienti poco ricettivi. Infatti secondo gli autori anche i medici sono troppo abituati a ragionare in termini di singoli fattori di rischio e non di rischio cardiovascolare, probabilmente anche per colpa del fatto che i medicinali che impiegano correntemente trattano una sola condizione. Molto ci si aspetta dalla famosa polipill, che dovrebbe riunire in un singolo farmaco i principi attivi sui diversi fattori di rischio e che quindi potrebbe forzare il passaggio a un altro modo di considerare il paziente.
Maurizio Imperiali
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Une esempio azzeccato
In effetti le due cose non sono sovrapponibili e l'articolo fa un esempio chiaro anche per chi medico non è. Si prenda un uomo fumatore di 60 anni con pressione arteriosa di 150/90 mmHg (un po' alta ma non drammatica), colesterolemia totale di 200 mg/dl (quindi sul filo della norma) e colesterolo HDL (quello protettivo) pari a 35 mg/dl (più basso del desiderabile); si prenda la sorella di quest'uomo, che di anni ne ha 50, non fuma e ha la pressione normale (130/75) ma ha una colesterolemia totale molto elevata (280 mg/dl) con HDL a 75 mg/dl (un valore buono). Ebbene a dispetto delle apparenze è il maschio quello in cui si dovrebbe avviare la terapia con le statine perché malgrado la spiccata ipercolesterolemia della sorella, il rischio che questa vada incontro a un evento cardiovascolare di lì a cinque anni è del 2% circa, mentre per l'uomo è 10 volte superiore. Insomma, si deve passare da un dato particolare al dato più impattante. Però, anche calcolare il rischio cardiovascolare complessivo non è semplice: vanno considerati, oltre ai parametri clinici già detti, età, sesso, abitudini. Insomma si deve prendere carta e penna e cominciare a fare di conto: certo, come scrive l'autore dell'editoriale, non si tratta di astrofisica, ma insomma non è così semplice.
Cuore più vecchio del possessore
Molto possono fare in questo senso i sistemi informatizzati di cartella clinica: ve ne sono alcuni che permettono di ricavare il rischio cardiovascolare sulla base dei dati registrati per il singolo paziente. Ma poi, il paziente è in grado di afferrare un discorso che è in termini solo probabilistici? Non c'è sicurezza al riguardo, anzi. Più azzeccata può invece essere l'idea messa in campo da una ricerca, cui l'editoriale fa ampio riferimento, dove si è adoperato un altro concetto. Quella dell'età cardiovascolare. In pratica, si traduce in termini di invecchiamento precoce del sistema cardiovascolare l'effetto dei diversi fattori di rischio presenti. Per tornare all'esempio di prima, si potrebbee dire al signore di 60 anni che il suo cuore (e annessi) ha un'età di 75 anni. Difficile equivocare un dato esposto in questi termini e, in effetti, nella ricerca citata questo modo di presentare la situazione ha garantito un miglioramento nei risultati della terapia con le statine: non enorme ma significativo.Comunque, non è solo colpa dei pazienti poco ricettivi. Infatti secondo gli autori anche i medici sono troppo abituati a ragionare in termini di singoli fattori di rischio e non di rischio cardiovascolare, probabilmente anche per colpa del fatto che i medicinali che impiegano correntemente trattano una sola condizione. Molto ci si aspetta dalla famosa polipill, che dovrebbe riunire in un singolo farmaco i principi attivi sui diversi fattori di rischio e che quindi potrebbe forzare il passaggio a un altro modo di considerare il paziente.
Maurizio Imperiali
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