22 febbraio 2008
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Dal dire al fare...
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Si sa già tutto quel che c'è da sapere sull'ipertensione? La risposta non è facile: al di là dell'eventuale scoperta di nuovi meccanismi causali, e magari di nuovi bersagli per i trattamenti, sembrerebbe che anche la popolazione sappia in misura soddisfacente quanto basta. Negli Stati Uniti una delle indagini epidemiologiche periodiche più importanti, la National Health and Nutrition Examination Survey (NAHNES), circa il 70% delle persone che presentano ipertensione sono consapevoli di che cosa questo comporti. Allo stesso tempo, l'indagine ha rivelato che la percentuale delle persone in trattamento è abbastanza alta, oscillando dal 68% al 90%. Però, spiega un commento pubblicato dagli Archives of Internal Medicine, manca probabilmente un ulteriore passaggio, cioè quello dell'adesione alle linee guida ufficiali da parte dei medici che operano direttamente sul territorio. Una situazione che si traduce non tanto nel trascurare la terapia, cosa che dai dati non risulta, ma nel non adeguarsi automaticamente agli obiettivi ottimali del trattamento. In altre parole, ci si accontenta di un risultato inferiore a quello che garantirebbe il massimo effetto sul piano della prevenzione. Inoltre, c'è una certa lentezza nell'adeguarsi ai risultati scientifici di punta. L'articolo fa l'esempio dell'ipertensione sistolica isolata, la condizione in cui si riscontra un valore eccessivo soltanto per la pressione massima.
Secondo le ricerche più recenti, ipertensione sistolica isolata è un importante predittore di incidenti cardiovascolari in tutta la popolazione oltre i 50 anni, più importante di quanto non lo sia la pressione diastolica, cioè la minima. In pratica, quello che rivela la ricerca clinica sarebbe poi perso per strada una volta che si passa all'applicazione quotidiana. Perché? Le risposte sono molte: per esempio c'è il timore che con un trattamento più accanito, in senso positivo, ovviamente, aumentino anche gli effetti collaterali, e si richieda un maggiore quantità di lavoro e risorse. Un investimento che non è chiaro, almeno a prima vista, se sia poi compensato dai risultati che si ottengono. Viene anche sfiorato, però, un argomento che forse invece, soprattutto negli Stati Uniti, ha un peso non indifferente. Accade che le linee guida vengano proposte come verità ultime e per molti aspetti definitive, salvo poi essere smentite come, nel caso, spesso citato, della terapia ormonale sostitutiva, che venne presentata anche come il principale mezzo per ridurre la mortalità cardiovascolare nelle donne in post-menopausa e poi venne, altrettanto inappellabilmente, tacciata di aumentarla.
Insomma, che poi il medico pratico si trovi a disagio a leggere come fosse la Bibbia l'ultima edizione delle linee guida sarà anche ingiustificato sul piano scientifico ma è comprensibile. Però questo è un ostacolo soprattutto negli Stati Uniti, anche per una certa tendenza a fornire indicazioni molto nette. Anche nel caso dell'ipertensione c'è una certa differenza tra l'approccio europeo e quello d'Oltreatlantico. Per esempio non si è mai imposto qui il concetto di pre-ipertensione, né sono mai state poste esclusioni forti a danno di una classe di farmaci (è il caso dei beta-bloccanti, per esempio). Quello che manca è un maggiore sforzo nella ricerca traslazionale, cioè quella che verifica che cosa succede quando si traduce il risultato dello studio clinico controllato nelle condizioni quotidiane. Senza contare che poi, anche negli Stati Uniti, si comincia a penare all'europea, cioè a non valutare il singolo aspetto (la glicemia, la pressione...), ma a combinare diversi aspetti che possono minare la salute cardiovascolare.
Sveva Prati
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Risultati sottovalutati
Secondo le ricerche più recenti, ipertensione sistolica isolata è un importante predittore di incidenti cardiovascolari in tutta la popolazione oltre i 50 anni, più importante di quanto non lo sia la pressione diastolica, cioè la minima. In pratica, quello che rivela la ricerca clinica sarebbe poi perso per strada una volta che si passa all'applicazione quotidiana. Perché? Le risposte sono molte: per esempio c'è il timore che con un trattamento più accanito, in senso positivo, ovviamente, aumentino anche gli effetti collaterali, e si richieda un maggiore quantità di lavoro e risorse. Un investimento che non è chiaro, almeno a prima vista, se sia poi compensato dai risultati che si ottengono. Viene anche sfiorato, però, un argomento che forse invece, soprattutto negli Stati Uniti, ha un peso non indifferente. Accade che le linee guida vengano proposte come verità ultime e per molti aspetti definitive, salvo poi essere smentite come, nel caso, spesso citato, della terapia ormonale sostitutiva, che venne presentata anche come il principale mezzo per ridurre la mortalità cardiovascolare nelle donne in post-menopausa e poi venne, altrettanto inappellabilmente, tacciata di aumentarla.
Differenze non trascurabili
Insomma, che poi il medico pratico si trovi a disagio a leggere come fosse la Bibbia l'ultima edizione delle linee guida sarà anche ingiustificato sul piano scientifico ma è comprensibile. Però questo è un ostacolo soprattutto negli Stati Uniti, anche per una certa tendenza a fornire indicazioni molto nette. Anche nel caso dell'ipertensione c'è una certa differenza tra l'approccio europeo e quello d'Oltreatlantico. Per esempio non si è mai imposto qui il concetto di pre-ipertensione, né sono mai state poste esclusioni forti a danno di una classe di farmaci (è il caso dei beta-bloccanti, per esempio). Quello che manca è un maggiore sforzo nella ricerca traslazionale, cioè quella che verifica che cosa succede quando si traduce il risultato dello studio clinico controllato nelle condizioni quotidiane. Senza contare che poi, anche negli Stati Uniti, si comincia a penare all'europea, cioè a non valutare il singolo aspetto (la glicemia, la pressione...), ma a combinare diversi aspetti che possono minare la salute cardiovascolare.
Sveva Prati
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