23 luglio 2008
Aggiornamenti e focus
Meglio non toccare (troppo) ferro
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Impossibile parlare di malattie cardiovascolari senza includere l'alimentazione tra le possibili cause o tra i fattori di rischio. E l'ipertensione non sfugge a questa tendenza: sodio, alcool, bilancio calorico, potassio, minerali, proteine, grassi, acidi grassi polinsaturi omega-3, sono solo alcuni dei possibili elementi associati alla dieta che possono influenzare, nel bene e nel male, la pressione sanguigna. A questi va aggiunto anche il ferro, già chiamato in causa molti anni fa, quando nel 1981 si ipotizzò un suo ruolo che poteva spiegare perchè le donne che hanno ancora il ciclo mestruale, e che quindi perdono un'importante quantità di ferro attraverso la mestruazione, presentassero una bassa incidenza di malattie coronariche, rispetto agli uomini e alle donne in postmenopausa. Questa osservazione epidemiologica suggerì che incrementare l'accumulo di ferro potesse essere un fattore di rischio.
E la spiegazione è biologica: il ferro contribuisce alla produzione di radicali liberi, allo stress ossidativo e ai processi infiammatori, processi legati ai livelli di pressione sanguigna. Studi successivi hanno poi dimostrato che in realtà non è il ferro totale il vero o presunto problema, ma una parte di esso, chiamato ferro eme, ovvero lo ione ferroso (Fe++) legato al gruppo eme dell'emoglobina, la cui fonte principale di assunzione alimentare è la carne rossa. Ma, siccome nel mondo non si mangia allo stesso modo, quattro equipe di ricercatori nei rispettivi paesi, Inghilterra, Stati Uniti, Cina e Giappone, hanno pensato di raccogliere dati, in una popolazione di loro connazionali, su pressione e alimentazione. In totale, hanno assemblato un campione di circa 4500 persone tra i 40 e i 59 anni e hanno verificato che l'assunzione di ferro, con alimentazione e integratori, era più alta negli Stati Uniti e in Cina, la più bassa in Giappone. Il ferro eme rappresentava il 6% del ferro totale assunto nei due paesi occidentali, mentre in Giappone era il 9% e in Cina il 3%. Ma con la differenza che in quest'ultimi il pesce rappresentava la fonte principale del ferro eme, il 61% e l'88% rispettivamente, mentre nel Regno Unito e negli Stati Uniti lo era la carne, per il 90% e per l'87% rispettivamente. Il ferro non-eme, prevalentemente presente negli alimenti di origine vegetale, veniva assunto dalla popolazione giapponese e cinese principalmente con verdure e legumi, mentre da inglesi e americani con cereali e pane.
Sovrapponendo i dati sull'alimentazione e sui valori pressori, gli autori sono arrivati alla conclusione che, nelle popolazioni osservate, l'assunzione di ferro totale e in forma non-eme è inversamente correlata alla pressione sanguigna e quindi più se ne assumevano e più bassi erano i valori misurati, sia nella minima sia nella massima. Il ferro in forma eme aveva, invece, un effetto negativo in quanto il suo apporto con l'alimentazione era associato a valori pressori più alti, e, anche se tale associazione non era statisticamente significativa, spiegherebbe il perchè anche l'elevato consumo di carni rosse era associato, indipendentemente da altri fattori, alla pressione più alta. La distinzione tra le due forme del ferro presente nel sangue trova una sua ragione anche nella diversità di meccanismi con cui vengono assorbite: la disponibilità del ferro non-eme è condizionata da molti fattori dietetici e nelle persone sane solo il 2,5% viene assorbito. L'assorbimento del ferro eme, più completo e meno regolato, arriva fino al 25% ed è facilmente misurabile tramite i valori ematici della ferritina, indicatore di accumulo del ferro totale, correlato con i livelli di ferro eme, ma non a quelli del ferro non-eme. Per altro, nei soggetti saturi di ferro l'assorbimento gastrico del ferro non-eme è fortemente ridotta mentre quella del ferro eme non viene influenzata più di tanto. Ed è stato anche dimostrato che con l'integrazione quotidiana di ferro l'assorbimento nelle persone sane si modifica, riducendo quello del ferro non-eme, ma non del ferro eme, motivo per cui anche l'uso di integratori alimentari di questo elemento andrebbe valutato anche nelle persone sane, evitandone di assumerlo senza aver prima fatto un controllo clinico del livello di ferro (ferritina) nel sangue. In definitiva, anche se dal punto di vista clinico individuale gli effetti osservati possono risultare minimi, proiettati sulla popolazione generale possono avere una rilevanza per la salute pubblica dal momento che una riduzione media di 2-3 mmHg A?del valore di pressione massima può comportare un'importante riduzione del carico di malattie cardiovascolari.
Simona Zazzetta
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C'erano un inglese, un americano...
E la spiegazione è biologica: il ferro contribuisce alla produzione di radicali liberi, allo stress ossidativo e ai processi infiammatori, processi legati ai livelli di pressione sanguigna. Studi successivi hanno poi dimostrato che in realtà non è il ferro totale il vero o presunto problema, ma una parte di esso, chiamato ferro eme, ovvero lo ione ferroso (Fe++) legato al gruppo eme dell'emoglobina, la cui fonte principale di assunzione alimentare è la carne rossa. Ma, siccome nel mondo non si mangia allo stesso modo, quattro equipe di ricercatori nei rispettivi paesi, Inghilterra, Stati Uniti, Cina e Giappone, hanno pensato di raccogliere dati, in una popolazione di loro connazionali, su pressione e alimentazione. In totale, hanno assemblato un campione di circa 4500 persone tra i 40 e i 59 anni e hanno verificato che l'assunzione di ferro, con alimentazione e integratori, era più alta negli Stati Uniti e in Cina, la più bassa in Giappone. Il ferro eme rappresentava il 6% del ferro totale assunto nei due paesi occidentali, mentre in Giappone era il 9% e in Cina il 3%. Ma con la differenza che in quest'ultimi il pesce rappresentava la fonte principale del ferro eme, il 61% e l'88% rispettivamente, mentre nel Regno Unito e negli Stati Uniti lo era la carne, per il 90% e per l'87% rispettivamente. Il ferro non-eme, prevalentemente presente negli alimenti di origine vegetale, veniva assunto dalla popolazione giapponese e cinese principalmente con verdure e legumi, mentre da inglesi e americani con cereali e pane.
L'eme fa la differenza
Sovrapponendo i dati sull'alimentazione e sui valori pressori, gli autori sono arrivati alla conclusione che, nelle popolazioni osservate, l'assunzione di ferro totale e in forma non-eme è inversamente correlata alla pressione sanguigna e quindi più se ne assumevano e più bassi erano i valori misurati, sia nella minima sia nella massima. Il ferro in forma eme aveva, invece, un effetto negativo in quanto il suo apporto con l'alimentazione era associato a valori pressori più alti, e, anche se tale associazione non era statisticamente significativa, spiegherebbe il perchè anche l'elevato consumo di carni rosse era associato, indipendentemente da altri fattori, alla pressione più alta. La distinzione tra le due forme del ferro presente nel sangue trova una sua ragione anche nella diversità di meccanismi con cui vengono assorbite: la disponibilità del ferro non-eme è condizionata da molti fattori dietetici e nelle persone sane solo il 2,5% viene assorbito. L'assorbimento del ferro eme, più completo e meno regolato, arriva fino al 25% ed è facilmente misurabile tramite i valori ematici della ferritina, indicatore di accumulo del ferro totale, correlato con i livelli di ferro eme, ma non a quelli del ferro non-eme. Per altro, nei soggetti saturi di ferro l'assorbimento gastrico del ferro non-eme è fortemente ridotta mentre quella del ferro eme non viene influenzata più di tanto. Ed è stato anche dimostrato che con l'integrazione quotidiana di ferro l'assorbimento nelle persone sane si modifica, riducendo quello del ferro non-eme, ma non del ferro eme, motivo per cui anche l'uso di integratori alimentari di questo elemento andrebbe valutato anche nelle persone sane, evitandone di assumerlo senza aver prima fatto un controllo clinico del livello di ferro (ferritina) nel sangue. In definitiva, anche se dal punto di vista clinico individuale gli effetti osservati possono risultare minimi, proiettati sulla popolazione generale possono avere una rilevanza per la salute pubblica dal momento che una riduzione media di 2-3 mmHg A?del valore di pressione massima può comportare un'importante riduzione del carico di malattie cardiovascolari.
Simona Zazzetta
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