05 ottobre 2007
Aggiornamenti e focus
Cronica ma stabile
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Il rapporto 2007 dell'Associazione italiana per lo studio del fegato parla di 20 mila persone che in Italia ogni anno muoiono di malattie croniche, una media di 57 al giorno e di due ogni ora. I dati provengono da un'elaborazioni di dati raccolti in 79 ospedali, coordinato dall'Istituto superiore di sanità. Numeri apparentemente allarmanti, ma con una precisazione incoraggiante: il 65% della mortalità è riconducibile a cirrosi epatica ed epatocarcinoma, cioè alle complicanze dell'epatite cronica provocata dall'infezione da virus dell'epatite C, la cui incidenza è decisamente in calo. Resta alta l'incidenza delle conseguenze per effetto del periodo finestra, che spesso supera i 20 anni, tra l'infezione e la manifestazione clinica della patologia cronica e alla passata diffusione massiccia del virus.
In Italia le stime di prevalenza si basano sui dati serologici e indicano un'oscillazione tra il 3 e il 26% dove una tendenza a valori più alti interessa le fasce di età più avanzata e le zone meridionali a differenza degli altri paesi occidentali dove la prevalenza di infezione interessa più i giovani adulti. In effetti, il picco di incidenza nella popolazione italiana risale agli anni '50 e '60 quando erano ancora in uso siringhe di vetro per eseguire iniezioni mentre negli Stati Uniti lo si è registrato negli anni '80 a causa della diffusione di droghe iniettive. La mancanza di un vaccino e di terapie antivirali efficaci hanno reso estremamente importante la prevenzione primaria ed è proprio su questa che si è giocata la scommessa sanitaria, con risultati evidenti e positivi. Negli Stati Uniti, per esempio, il calo del numero di nuovi casi ha avuto inizio alla fine degli anni '80, in particolare nella fascia giovane, tra i 15 e i 24 anni, fino ad arrivare a 0,4 per 100 mila abitanti nel 2003. Ciò è stato possibile in quanto, poiché la via di trasmissione preferenziale del virus è quella ematica, l'aumento del livello di guardia sulle trasfusioni e sui trapianti, in realtà rivolto all'HIV, e un comportamento più prudente da parte di tossicodipendenti, hanno contribuito ad arrestarne la diffusione.
In questo quadro, tutto sommato rassicurante, una nota di forte negatività è emersa recentemente da un'indagine realizzata da GfK-Eurisko sulle condizioni sanitarie della carceri italiane: l'epatite C colpisce un detenuto su tre e tra le malattie virali croniche C è al primo posto. Coinvolge circa un quarto dei detenuti di quelli presenti negli istituti penitenziari analizzati dall'indagine, che non sempre ricevono le cure adeguate. Infatti, solo metà viene avviato subito alla terapia e, fra questi, un quarto non la accetta. Un terzo dei pazienti in trattamento sospende la cura prima del previsto: su 100 detenuti con l'infezione sono 74 quelli che non seguono alcuna terapia o la interrompono prima. La prevalenza è del 38%, del 30% nella popolazione femminnile, la più alta interessa la fascia di età 35-40 anni e il rischio di trasmissione è dovuto a vari fattori. In primo luogo la concentrazione di tanti soggetti a rischio, in modo particolare tossicodipendenti, il sovraffollamento, l'uso promiscuo di oggetti taglienti come rasoi, tagliaunghie nonché di spazzolini da denti. E infine la pratica di tatuaggi eseguiti con strumenti inappropriati.
Vaccino risolutivo
Un problema sanitario minore ma comunque monitorato, è rappresentato dagli altri due principali virus dell'epatite: il virus A e il virus B. Il primo si trasmette per via oro-fecale veciolato da cibo e acqua o per contatto diretto con una persona infetta. L'Italia è considerata un'area a endemicità medio bassa per il virus A e c'è stato un calo da 10 casi ogni 100 mila abitanti del 1985 a 3,5 per milione di abitanti del 2004, con un picco nel 1996-97 dovuto a un'epidemia che investì Puglia e Campania. Il miglioramento delle condizioni di salute della popolazione e dei controlli su alcuni alimenti come i molluschi, consumati crudi soprattutto nel Sud Italia, ha permesso un calo di nuovi casi anche se la zona meridionale resta a endemicità intermedia rispetto al Nord.Il virus dell'epatite B è rimasto endemico fino alla fine degli anni '70, quindi è seguita una progressiva riduzione dovuta al miglioramento delle condizioni igieniche e all'introduzione di materiali usa e getta per la somministrazione di farmaci, fino alla fine degli anni '80 quando la prevalenza nella popolazione infantile era scesa sotto il 2%. Il virus dell'epatite B ha smesso definitivamente di essere un problema con l'introduzione obbligatoria del vaccino nel 1991 per tutti i bambini tra i 3 mesi e i 12 anni, sospesa poi nel 2003.
Simona Zazzetta
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Le stime di prevalenza
In Italia le stime di prevalenza si basano sui dati serologici e indicano un'oscillazione tra il 3 e il 26% dove una tendenza a valori più alti interessa le fasce di età più avanzata e le zone meridionali a differenza degli altri paesi occidentali dove la prevalenza di infezione interessa più i giovani adulti. In effetti, il picco di incidenza nella popolazione italiana risale agli anni '50 e '60 quando erano ancora in uso siringhe di vetro per eseguire iniezioni mentre negli Stati Uniti lo si è registrato negli anni '80 a causa della diffusione di droghe iniettive. La mancanza di un vaccino e di terapie antivirali efficaci hanno reso estremamente importante la prevenzione primaria ed è proprio su questa che si è giocata la scommessa sanitaria, con risultati evidenti e positivi. Negli Stati Uniti, per esempio, il calo del numero di nuovi casi ha avuto inizio alla fine degli anni '80, in particolare nella fascia giovane, tra i 15 e i 24 anni, fino ad arrivare a 0,4 per 100 mila abitanti nel 2003. Ciò è stato possibile in quanto, poiché la via di trasmissione preferenziale del virus è quella ematica, l'aumento del livello di guardia sulle trasfusioni e sui trapianti, in realtà rivolto all'HIV, e un comportamento più prudente da parte di tossicodipendenti, hanno contribuito ad arrestarne la diffusione.
Galeotta fu l'infezione
In questo quadro, tutto sommato rassicurante, una nota di forte negatività è emersa recentemente da un'indagine realizzata da GfK-Eurisko sulle condizioni sanitarie della carceri italiane: l'epatite C colpisce un detenuto su tre e tra le malattie virali croniche C è al primo posto. Coinvolge circa un quarto dei detenuti di quelli presenti negli istituti penitenziari analizzati dall'indagine, che non sempre ricevono le cure adeguate. Infatti, solo metà viene avviato subito alla terapia e, fra questi, un quarto non la accetta. Un terzo dei pazienti in trattamento sospende la cura prima del previsto: su 100 detenuti con l'infezione sono 74 quelli che non seguono alcuna terapia o la interrompono prima. La prevalenza è del 38%, del 30% nella popolazione femminnile, la più alta interessa la fascia di età 35-40 anni e il rischio di trasmissione è dovuto a vari fattori. In primo luogo la concentrazione di tanti soggetti a rischio, in modo particolare tossicodipendenti, il sovraffollamento, l'uso promiscuo di oggetti taglienti come rasoi, tagliaunghie nonché di spazzolini da denti. E infine la pratica di tatuaggi eseguiti con strumenti inappropriati.
Vaccino risolutivo
Un problema sanitario minore ma comunque monitorato, è rappresentato dagli altri due principali virus dell'epatite: il virus A e il virus B. Il primo si trasmette per via oro-fecale veciolato da cibo e acqua o per contatto diretto con una persona infetta. L'Italia è considerata un'area a endemicità medio bassa per il virus A e c'è stato un calo da 10 casi ogni 100 mila abitanti del 1985 a 3,5 per milione di abitanti del 2004, con un picco nel 1996-97 dovuto a un'epidemia che investì Puglia e Campania. Il miglioramento delle condizioni di salute della popolazione e dei controlli su alcuni alimenti come i molluschi, consumati crudi soprattutto nel Sud Italia, ha permesso un calo di nuovi casi anche se la zona meridionale resta a endemicità intermedia rispetto al Nord.Il virus dell'epatite B è rimasto endemico fino alla fine degli anni '70, quindi è seguita una progressiva riduzione dovuta al miglioramento delle condizioni igieniche e all'introduzione di materiali usa e getta per la somministrazione di farmaci, fino alla fine degli anni '80 quando la prevalenza nella popolazione infantile era scesa sotto il 2%. Il virus dell'epatite B ha smesso definitivamente di essere un problema con l'introduzione obbligatoria del vaccino nel 1991 per tutti i bambini tra i 3 mesi e i 12 anni, sospesa poi nel 2003.
Simona Zazzetta
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