04 novembre 2005
Aggiornamenti e focus
L'altra epidemia
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L'influenza aviaria non è cosa nuova. Nel 2004, infatti, si verificò una vera e propria epidemia, della quale, oggi, sono disponibili i dettagli. La premessa è che la Thailandia è uno dei maggiori produttori di pollame: circa un miliardo di capi l'anno, con 400.000 addetti circa, senza contare gli allevamenti domestici per il consumo diretto. Gli allevamenti sono concentrati nelle regioni centrali e orientali. Le morti di polli cominciarono alla fine di dicembre 2003 e circa un mese dopo venne isolato l'ormai famoso virus H5N1, che a sua volta derivava dal sottotipo che aveva agito nell'anno 2000. Anche i casi di contagio dall'animale all'uomo cominciarono nello stesso periodo. C'è la quasi certezza, da parte delle autorità sanitarie thailandesi che il virus sia stato introdotto nel paese dall'esterno, con le migrazioni di uccelli selvatici dalle pianure della Cina, in occasione della stagione fredda, ma non è stato possibile tracciarne il percorso, né trovare con certezza il caso indice, cioè il primo. L'epidemia si è svolta in due fasi. La prima va da gennaio a maggio 2004, con focolai in 188 villaggi situati in 42 delle 76 province in cui è suddiviso il paese. Una distribuzione uniforme, che prova come il virus si fosse diffuso abbastanza equamente. La seconda va da luglio a dicembre 2004, e furono identificati focolai in 1243 villaggi, in 51 province, ma con massima concentrazione in tre regioni.
Anche se si parla di virus del pollo, non solo di polli si è trattato. Rappresentarono il 56% dei casi identificati, ma le anatre, che erano anche portatori silenti, sono state il 27%. Furono coinvolti anche altri volatili, per esempio le quaglie, e altri animali come gatti, leopardi e tigri degli zoo furono contagiati e uccisi. Le misure poste in atto per contenere l'epidemia sono intuibili: intanto venne istituita una rete di sorveglianza, poi si stabilì di giudicare sospetto qualsiasi caso di allevamento in cui si fosse verificata, in un giorno, la morte di più del 10% dei capi. Dopodiché si passò anche all'eliminazione preventiva di tutti i volatili presenti nel raggio di 5 km dai focolai nei quali era stato accertata la presenza del virus aviario. In totale i volatili morti o abbattuti furono 62 milioni, con un costo per lo stato, che rimborsò i contadini, di circa 132,5 milioni di dollari. Si badi però che il rimborso fu parziale (inizialmente l'85% poi il 75% del valore del capo) e che comunque questa è solo una parte del danno. Infatti vanno considerate le misure sanitarie - che hanno un costo, ovviamente -, la perdita di produttività, l'effetto sul commercio estero. In definitiva il prodotto nazionale lordo calò dello 0,39%, con un danno stimato attorno ai 660 milioni di dollari.
Perdite umane? Fortunatamente poche: 17 contagiati con 12 decessi. Se si pensa alla diffusione enorme dell'infezione tra i polli, è evidente che il contagio nell'uomo è stato rarissimo, se non statisticamente insignificante. Non si dimentichi, infatti, che 400.000 persone viveva a stretto contatto con gli animali, per ragioni lavorative. La conclusione è che, comunque, l'influenza aviaria è una calamità se non altro per l'economia. Più triste ancora ammettere che la massima vulnerabilità, e quindi l'occasione di contagio, si ha dove gli animali vivono liberi. In particolare si sottolinea il peso che hanno avuto le anatre tenute in libertà nella trasmissione della malattia. Va da sé, poi, che non è più concepibile come purtroppo avviene in questa area, coniugare grandi produzioni e misure igieniche precarie. Infatti, nel corso dell'epidemia, gli allevamenti soppressi potevano essere riorganizzati soltanto dopo aver atteso un periodo di decontaminazione e rispettando una serie di standard igienici prima sconosciuti. Basta tutto questo? Forse no, in una prima fase, visto che focolai si sono presentati anche dopo la fine del 2004. Però non c'è un'alternativa praticabile. Non è un caso che ancora oggi in Europa, malgrado i casi accertati, non vi sia stata diffusione.
Maurizio Imperiali
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Non soltanto galline
Anche se si parla di virus del pollo, non solo di polli si è trattato. Rappresentarono il 56% dei casi identificati, ma le anatre, che erano anche portatori silenti, sono state il 27%. Furono coinvolti anche altri volatili, per esempio le quaglie, e altri animali come gatti, leopardi e tigri degli zoo furono contagiati e uccisi. Le misure poste in atto per contenere l'epidemia sono intuibili: intanto venne istituita una rete di sorveglianza, poi si stabilì di giudicare sospetto qualsiasi caso di allevamento in cui si fosse verificata, in un giorno, la morte di più del 10% dei capi. Dopodiché si passò anche all'eliminazione preventiva di tutti i volatili presenti nel raggio di 5 km dai focolai nei quali era stato accertata la presenza del virus aviario. In totale i volatili morti o abbattuti furono 62 milioni, con un costo per lo stato, che rimborsò i contadini, di circa 132,5 milioni di dollari. Si badi però che il rimborso fu parziale (inizialmente l'85% poi il 75% del valore del capo) e che comunque questa è solo una parte del danno. Infatti vanno considerate le misure sanitarie - che hanno un costo, ovviamente -, la perdita di produttività, l'effetto sul commercio estero. In definitiva il prodotto nazionale lordo calò dello 0,39%, con un danno stimato attorno ai 660 milioni di dollari.
Pochissimi casi nell'uomo
Perdite umane? Fortunatamente poche: 17 contagiati con 12 decessi. Se si pensa alla diffusione enorme dell'infezione tra i polli, è evidente che il contagio nell'uomo è stato rarissimo, se non statisticamente insignificante. Non si dimentichi, infatti, che 400.000 persone viveva a stretto contatto con gli animali, per ragioni lavorative. La conclusione è che, comunque, l'influenza aviaria è una calamità se non altro per l'economia. Più triste ancora ammettere che la massima vulnerabilità, e quindi l'occasione di contagio, si ha dove gli animali vivono liberi. In particolare si sottolinea il peso che hanno avuto le anatre tenute in libertà nella trasmissione della malattia. Va da sé, poi, che non è più concepibile come purtroppo avviene in questa area, coniugare grandi produzioni e misure igieniche precarie. Infatti, nel corso dell'epidemia, gli allevamenti soppressi potevano essere riorganizzati soltanto dopo aver atteso un periodo di decontaminazione e rispettando una serie di standard igienici prima sconosciuti. Basta tutto questo? Forse no, in una prima fase, visto che focolai si sono presentati anche dopo la fine del 2004. Però non c'è un'alternativa praticabile. Non è un caso che ancora oggi in Europa, malgrado i casi accertati, non vi sia stata diffusione.
Maurizio Imperiali
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