Neuroni soffocati

07 novembre 2003
Aggiornamenti e focus

Neuroni soffocati



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Il morbo di Alzheimer è la forma di demenza senile più diffusa e prende il nome dal suo scopritore, Alois Alzheimer, neurologo tedesco che descrisse la malattia nel 1907. Alla base dell'Alzheimer vi è una lenta e progressiva degenerazione dei neuroni. Colpisce soprattutto, ma non esclusivamente, gli anziani ma non va considerata una conseguenza normale dell'invecchiamento. Del resto, nei pazienti colpiti il declino delle capacità cognitive avviene molto più rapidamente ed è molto più grave rispetto a quello dovuto all'invecchiamento.
E' difficile fornire dati precisi sulla diffusione dell'Alzheimer. Sulla base di studi condotti in Italia, Giappone, Gran Bretagna e Olanda, si stima che il numero di malati oscilla dal 4,1 all'8,4 per cento delle persone con più di 65 anni. Si prevede, però, che il loro numero raddoppierà nel 2020. Secondo la stima accettata negli Stati Uniti, i casi gravi rappresentano il 4 per cento della popolazione sopra i 65 anni, che tradotto nella realtà italiana significa circa 500.000 casi. Attualmente si stima che nei 33 paesi che aderiscono all'Alzheimer Disease International sono almeno 15 milioni le persone colpite. Tra le donne oltre i 65 anni la prevalenza della malattia è superiore, ma questo si deve al fatto che le donne vivono più a lungo, non a una maggiore esposizione. Infatti, il numero dei nuovi casi ogni anno (incidenza) è uguale nei due sessi.

I meccanismi della malattia


All'esterno del neurone si assiste alla formazione di placche, frutto della deposizione di una particolare proteina, chiamata beta amiloide. All'interno della cellula, invece, si producono strutture anomale: i grovigli neurofibrillari, dovuti all'anomala disposizione di un'altra proteina (proteina Tau). Si tratta di segni inconfondibili caratteristici soltanto di questa malattia. Un altro fenomeno che accompagna la malattia è la forte diminuzione nel cervello, fino al 90 per cento, della quantità di acetilcolina, un neurotrasmettitore legato direttamente alla memoria e ad altre capacità intellettuali.
La degenerazione dei neuroni comporta dunque il declino delle capacità cognitive. Si comincia con perdite della memoria a breve termine, per poi proseguire con la perdita di altre facoltà come quella di orientarsi e riconoscere il luogo in cui ci si trova, compiere ragionamenti astratti come quelli sui numeri e via di seguito fino alle capacità linguistiche e di controllare gli sfinteri. La progressione dei sintomi riflette la degenerazione delle cellule cerebrali. Questa comincia nella corteccia entorinale, prosegue nell'ippocampo e infine nella corteccia cerebrale (la sede delle funzioni più elevate).
L'andamento della malattia è piuttosto lento e in media l'evoluzione dalla fase iniziale a quella finale (cioè la totale incapacità del paziente di badare a se stesso) dura da quattro a otto anni, anche se le variazioni sono piuttosto grandi: si va dai due ai venti anni. Il più delle volte il malato di Alzheimer muore per malattie diverse che si aggiungono al suo stato, per esempio la polmonite, oppure per disidratazione o malnutrizione, che invece dipendono dall'incapacità di badare a se stessi. Si assiste anche a una modificazione della personalità: per esempio, persone miti divengono irascibili e hanno anche scoppi di violenza.

Una diagnosi difficile


Non esiste un test specifico per scoprire la presenza del Morbo di Alzheimer. In effetti, la ricerca dei segni distintivi, cioè la deposizione di beta amiloide e la formazione dei grovigli neurofibrillari, può essere agevolmente effettuata soltanto dopo la morte del paziente, procedendo all'esame del tessuto cerebrale. In teoria si potrebbe provvedere a una biopsia, ma i rischi di complicazioni sono tali da renderla impraticabile. Oggi, dunque, la diagnosi si basa principalmente sull'esame neuropsicologico, cioè sulla valutazione delle capacità mentali del malato attraverso questionari e altre prove. Anche se apparentemente meno certa di quella ottenibile con il ricorso al laboratorio, questa valutazione ha un'elevata precisione: il 90 per cento circa delle diagnosi ottenute in questo modo viene poi confermata dall'autopsia.
Le tecniche di diagnostica per immagini come la risonanza magnetica nucleare, la TAC, la PET e la SPECT servono più che altro a escludere che la demenza sia dovuta ad altre cause, per esempio gli infarti cerebrali (ictus). Ad allargare le possibilità di diagnosi è venuto più recentemente il dosaggio nel fluido cerebrospinale del peptide 42b beta-amiloide (un precursore della proteina della placca) e della proteina Tau. Deponendosi all'interno del cervello, nel malato di Alzheimer i livelli del peptide nel liquido cerebrospinale diminuiscono; al contrario aumentano quelli della proteina Tau. Se invece il livello della Tau è elevato, ma quello del peptide no, è più probabile che si tratti di un'altro tipo di demenza. Tuttavia il test, eseguito da solo, ha scarso valore e viene condotto solo nei pazienti con sintomi di demenza e assieme ad altri test per escludere ictus e tumori. Infine, possono anche essere condotti test genetici, per cercare se sono presenti le mutazioni che sono state associate alla demenza a esordio precoce (nei geni PSEN1, PSEN2 e APP) e alla demenza a esordio senile (il gene ApoE).

Cause e cure ancora vaghe

Probabilmente questo è il capitolo ancora meno esplorato. Guardando ai dati epidemiologici, i parenti di primo grado di malati di Alzheimer sono più esposti a loro volta alla malattia. Quest'ultimo punto è stato confermato dagli studi condotti sui gemelli, dove si è visto che tra i gemelli monozigoti accade più di frequente che entrambi siano colpiti dalla malattia rispetto ai gemelli dizigoti, nei quali il patrimonio genetico non è identico. Questo tende ad avvalorare l'ipotesi che la demenza di Alzheimer sia una malattia in cui pesa la componente genetica. L'anomalia genetica più studiata è quella del gene che comanda la produzione della apolipoproteina E. Di questa sostanza esistono tre forme diverse e una di queste, la ApoE4, costituisce un fattore di rischio per l'Alzheimer a esordio senile. Tuttavia, l'ApoE4 non è la sola causa e quindi si è inclini a pensare che le anomalie genetiche coinvolte siano più d'una e che differiscano da famiglia a famiglia.
Anomalie dei cromosomi 21 e 14, invece, sarebbero legate piuttosto alla forma più rara della malattia, cioè quella a esordio precoce (prima dei 60 anni). Le mutazioni, che interessano i geni PSEN1, PSEN2 e APP, da una parte accelererebbero l'apoptosi delle cellule cerebrali, cioè la loro "morte programmata", rendendole più sensibili all'attacco della beta amiloide e, dall'altra, provocherebbero una maggiore produzione della proteina stessa come risposta allo stress.
Nel corso degli anni si è pensato anche a fattori ambientali nella genesi della demenza. Per esempio, per un certo periodo si è ritenuto potesse essere causata dall'intossicazione da alluminio, ma questa spiegazione è stata accantonata, mentre si continua a discutere sulla possibile influenza del livello di istruzione. Infatti, statisticamente la malattia è meno diffusa tra le persone che hanno un grado di cultura più elevato, anche se questo dato è soggetto a differenti interpretazioni.
Quanto alle cure, sono state proposte nel tempo diverse sostanze, nessuna delle quali con esiti completamente positivi: in alcuni casi la progressione della malattia è stata rallentata ma non sempre e non in misura prevedibile. Il meccanismo d'azione, in sintesi, è lo stesso: cercare di aumentare il livello di acetilcolina così da compensare i deficit dei neuroni. Ultima in ordine di tempo è la memantina, recentemente approvata dalla Food and Drug Administration statunitense. Diverso un altro approccio solo recentemente passato dalla sperimentazione su cavie a quella umana. Si tratta di stimolare la risposta del sistema immunitario, già presente, contro la proteina amiloide. Lo scopo è far sì che sia lo stesso sistema immunitario a eliminare la proteina impedendo la formazione della placca e, quindi, il "soffocamento" del neurone.

Maurizio Imperiali



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