02 aprile 2004
Aggiornamenti e focus
L'aborto non mette a rischio il seno
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Per lungo tempo si è pensato, o meglio sospettato, che l'interruzione di gravidanza spontanea o indotta, potesse avere una correlazione con lo sviluppo di tumore al seno. In diversi stati americani, come il Texas, il Minnesota e il Kansas, le donne vengono messe in guardia sul possibile aumento del rischio di carcinoma mammario in caso di aborto, mentre altrove si discute ancora se sia necessario che il medico allarmi le pazienti. Nel novembre 2002, anche il sito del National Cancer Institute suggerì un possibile legame tra i due eventi, mettendo poi in dubbio questa affermazione qualche mese dopo. Gli studi al riguardo sono infatti numerosi e spesso contradditori, ma dall'analisi della maggior parte di questi è emerso un difetto metodologico che potrebbe mettere a tacere la diatriba. Forse.
Il Collaborative Group on Hormonal Factors in Breast Cancer, un'equipe molto attiva nella ricerca scientifica delle possibili cause del carcinoma mammario, ha selezionato 53 studi che avevano analizzato la correlazione tra l'aborto e la patologia. Per essere incluso, ognuno di questi doveva aver osservato almeno 100 donne malate in paesi in cui la legge ammetteva l'aborto volontario.
Nell'ambito di questa raccolta, è stata fatta un'ulteriore distinzione, in quanto era possibile riconoscere due metodi usati per stabilire la relazione causa effetto: uno prospettico e l'altro retrospettivo. Si parla di studio prospettico quando l'osservazione ha inizio in un determinato tempo in cui si verifica un evento, la possibile causa, e prosegue finché non se ne verifica un altro, il possibile effetto. Lo studio retrospettivo si basa invece sull'osservazione di due eventi già accaduti e cerca tra essi una correlazione statisticamente significativa.
I 53 studi selezionati interessavano 16 paesi per un totale di 83 mila donne colpite da tumore al seno, che avevano in media 50 anni e 2 figli.
Solo 13, dei 53 studi, rispondevano alle caratteristiche di studio prospettico, in totale avevano analizzato 44 mila donne senza registrare un particolare aumento del rischio in caso di aborto, anzi. Vale a dire che, in media, il rischio di tumore in donne che non avevano portato a termine la gravidanza per aborto spontaneo non differiva significativamente da quello di donne che non avevano avuto quest'esperienza. La tendenza veniva pressoché mantenuta quando si prendevano in considerazioni le interruzioni volontarie: la valutazione del rischio rimaneva simile rispetto alle donne che avevano concluso la gravidanza con un parto.
Questi dati apparivano leggermente diversi rispetto a quelli riportati dai lavori fatti con il metodo retrospettivo, ma il Collaborative Group on Hormonal Factors in Breast Cancer ha ritenuto opportuno non prenderli in considerazione perché scaturiti da una ricerca che, per la sua natura, implicava una compromissione dei risultati ottenuti. Infatti, era molto probabile che una donna con diagnosi di carcinoma mammario riportasse di aver avuto un aborto, spontaneo o indotto, proprio per cercare una spiegazione alla sua malattia, mentre non era altrettanto sicuro che lo avrebbe fatto una donna sana.
Questo condizionamento di fondo aveva come conseguenza diretta un maggior numero di aborti registrati nel gruppo di pazienti con il tumore e quindi la conclusione che questo evento potesse aver avuto un ruolo importante nella patogenesi.
La pubblicazione nel numero di marzo della rivista Lancet, non ha certamente spento il dibattito, la corrente anti-abortista ha sollevato critiche sui metodi con cui gli studi sono stati selezionati accusando il Gruppo di non aver considerato un ampio studio prospettico che invece sosteneva l'aumentato rischio in caso di aborto. La diatriba quindi non finirà qui, ma se è proprio una questione di metodo, per 13 volte è stato dimostrato che il rischio non aumenta.
Simona Zazzetta
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Questione di metodo
Il Collaborative Group on Hormonal Factors in Breast Cancer, un'equipe molto attiva nella ricerca scientifica delle possibili cause del carcinoma mammario, ha selezionato 53 studi che avevano analizzato la correlazione tra l'aborto e la patologia. Per essere incluso, ognuno di questi doveva aver osservato almeno 100 donne malate in paesi in cui la legge ammetteva l'aborto volontario.
Nell'ambito di questa raccolta, è stata fatta un'ulteriore distinzione, in quanto era possibile riconoscere due metodi usati per stabilire la relazione causa effetto: uno prospettico e l'altro retrospettivo. Si parla di studio prospettico quando l'osservazione ha inizio in un determinato tempo in cui si verifica un evento, la possibile causa, e prosegue finché non se ne verifica un altro, il possibile effetto. Lo studio retrospettivo si basa invece sull'osservazione di due eventi già accaduti e cerca tra essi una correlazione statisticamente significativa.
A ogni cosa il suo peso
I 53 studi selezionati interessavano 16 paesi per un totale di 83 mila donne colpite da tumore al seno, che avevano in media 50 anni e 2 figli.
Solo 13, dei 53 studi, rispondevano alle caratteristiche di studio prospettico, in totale avevano analizzato 44 mila donne senza registrare un particolare aumento del rischio in caso di aborto, anzi. Vale a dire che, in media, il rischio di tumore in donne che non avevano portato a termine la gravidanza per aborto spontaneo non differiva significativamente da quello di donne che non avevano avuto quest'esperienza. La tendenza veniva pressoché mantenuta quando si prendevano in considerazioni le interruzioni volontarie: la valutazione del rischio rimaneva simile rispetto alle donne che avevano concluso la gravidanza con un parto.
Questi dati apparivano leggermente diversi rispetto a quelli riportati dai lavori fatti con il metodo retrospettivo, ma il Collaborative Group on Hormonal Factors in Breast Cancer ha ritenuto opportuno non prenderli in considerazione perché scaturiti da una ricerca che, per la sua natura, implicava una compromissione dei risultati ottenuti. Infatti, era molto probabile che una donna con diagnosi di carcinoma mammario riportasse di aver avuto un aborto, spontaneo o indotto, proprio per cercare una spiegazione alla sua malattia, mentre non era altrettanto sicuro che lo avrebbe fatto una donna sana.
Questo condizionamento di fondo aveva come conseguenza diretta un maggior numero di aborti registrati nel gruppo di pazienti con il tumore e quindi la conclusione che questo evento potesse aver avuto un ruolo importante nella patogenesi.
La pubblicazione nel numero di marzo della rivista Lancet, non ha certamente spento il dibattito, la corrente anti-abortista ha sollevato critiche sui metodi con cui gli studi sono stati selezionati accusando il Gruppo di non aver considerato un ampio studio prospettico che invece sosteneva l'aumentato rischio in caso di aborto. La diatriba quindi non finirà qui, ma se è proprio una questione di metodo, per 13 volte è stato dimostrato che il rischio non aumenta.
Simona Zazzetta
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