16 settembre 2005
Aggiornamenti e focus
Orizzonti più ampi per la terapia ormonale
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Ci si ammala di carcinoma mammario, ma per fortuna ci si può anche curare, e bene. La probabilità di sviluppo di questa neoplasia è del 7% e comporta, solo in Italia, 30 mila nuovi casi ogni anno. Le cure ci sono e sono efficaci e la ricerca medico scientifica sempre impegnata a elaborare terapie nuove, tenta di proporre strumenti che abbiano l'impatto meno forte possibile sulla qualità della vita delle donne.
Lo dimostra l'evoluzione delle opzioni terapeutiche che dall'ovariectomia, che si eseguiva alla fine dell'800 è passata via via a strategie meno invalidanti fino alle terapie molecolari, sempre più mirate. Infatti, da che l'intervento medico significava mortificare e a volte annullare la femminilità, come, per esempio, accadeva con i farmaci a base di androgeni o con l'asportazione dell'ipofisi, si è arrivati a principi attivi che agiscono in modo chirurgico sulle cellule tumorali. Questo è particolarmente vero per l'ormonoterapia: quando il tumore è sensibile agli ormoni, prodotti dalla donna, si cerca di intervenire sull'attività di tali molecole. Una strategia che, a differenza della chemioterapia o della radioterapia, consente di conservare meglio la qualità della vita della paziente, ragion per cui si tenta di protrarla il più a lungo possibile prima di passare agli antiblastici.La prima linea della strategia endocrina è rappresentata dagli antiestrogenici (tamoxifene), che competono per i recettori degli estrogeni impedendo l'azione degli ormoni endogeni che stimolano la proliferazione delle cellule tumorali. La seconda linea di intervento consiste nell'inibizione dell'aromatasi (anastrozolo), enzima chiave nella sintesi degli estrogeni, e infine, in terza linea si procede con gli antiprogestinici.
Per quanto avanzate e mirate si tratta di strategie non prive di effetti collaterali, aspetto che, come è avvenuto in passato, ha spinto il mondo scientifico a proseguire le indagini. Tant'è che oggi la prima linea di attacco vanta una nuova arma, una nuova molecola, che stando a quanto riferito negli studi clinici, comporta meno effetti avversi, o comunque più lievi. Il nome del principio attivo è fulvestrant, e agisce come il tamoxifene, ma con una marcia in più: infatti non solo lega selettivamente i recettori degli estrogeni sulle cellule tumorali, bloccandoli, ma li distrugge. La struttura molecolare è molto simile a quella degli estrogeni ma con una catena laterale in più, che determina l'azione del farmaco accelerando la perdita della maggior parte dei recettori estrogenici. Con la conseguenza che la replicazione delle cellule neoplastiche viene quasi completamente bloccata. Inoltre, a differenza del tamoxifene che comunque aveva dimostrato una parziale azione simile a quella degli estrogeni (azione agonista), il fulvestrant non lo è affatto.Grazie alla quasi totale assenza di effetti collaterali, riassumibili in vampate di calore e orticaria lievi, si ottiene una maggior aderenza al trattamento da parte delle pazienti e la possibilità di protrarre il trattamento posticipando eventuali chemioterapie. Inoltre gli studi clinici hanno dimostrato un aumento dell'incidenza di risposte obiettive all'ormonoterapia, e aumenta il periodo di assenza di aggravamento della malattia.
Simona Zazzetta
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Meglio conservare
Lo dimostra l'evoluzione delle opzioni terapeutiche che dall'ovariectomia, che si eseguiva alla fine dell'800 è passata via via a strategie meno invalidanti fino alle terapie molecolari, sempre più mirate. Infatti, da che l'intervento medico significava mortificare e a volte annullare la femminilità, come, per esempio, accadeva con i farmaci a base di androgeni o con l'asportazione dell'ipofisi, si è arrivati a principi attivi che agiscono in modo chirurgico sulle cellule tumorali. Questo è particolarmente vero per l'ormonoterapia: quando il tumore è sensibile agli ormoni, prodotti dalla donna, si cerca di intervenire sull'attività di tali molecole. Una strategia che, a differenza della chemioterapia o della radioterapia, consente di conservare meglio la qualità della vita della paziente, ragion per cui si tenta di protrarla il più a lungo possibile prima di passare agli antiblastici.La prima linea della strategia endocrina è rappresentata dagli antiestrogenici (tamoxifene), che competono per i recettori degli estrogeni impedendo l'azione degli ormoni endogeni che stimolano la proliferazione delle cellule tumorali. La seconda linea di intervento consiste nell'inibizione dell'aromatasi (anastrozolo), enzima chiave nella sintesi degli estrogeni, e infine, in terza linea si procede con gli antiprogestinici.
Novità in prima linea
Per quanto avanzate e mirate si tratta di strategie non prive di effetti collaterali, aspetto che, come è avvenuto in passato, ha spinto il mondo scientifico a proseguire le indagini. Tant'è che oggi la prima linea di attacco vanta una nuova arma, una nuova molecola, che stando a quanto riferito negli studi clinici, comporta meno effetti avversi, o comunque più lievi. Il nome del principio attivo è fulvestrant, e agisce come il tamoxifene, ma con una marcia in più: infatti non solo lega selettivamente i recettori degli estrogeni sulle cellule tumorali, bloccandoli, ma li distrugge. La struttura molecolare è molto simile a quella degli estrogeni ma con una catena laterale in più, che determina l'azione del farmaco accelerando la perdita della maggior parte dei recettori estrogenici. Con la conseguenza che la replicazione delle cellule neoplastiche viene quasi completamente bloccata. Inoltre, a differenza del tamoxifene che comunque aveva dimostrato una parziale azione simile a quella degli estrogeni (azione agonista), il fulvestrant non lo è affatto.Grazie alla quasi totale assenza di effetti collaterali, riassumibili in vampate di calore e orticaria lievi, si ottiene una maggior aderenza al trattamento da parte delle pazienti e la possibilità di protrarre il trattamento posticipando eventuali chemioterapie. Inoltre gli studi clinici hanno dimostrato un aumento dell'incidenza di risposte obiettive all'ormonoterapia, e aumenta il periodo di assenza di aggravamento della malattia.
Simona Zazzetta
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