27 gennaio 2006
Aggiornamenti e focus
Sensibile all'ormone. E cioè...
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E' sempre più difficile parlare di cancro della mammella senza parlare di ormoni, in parte perché una delle conseguenze della terapia sostitutiva più citata, e spesso anche a sproposito, era proprio l'aumento del rischio relativo di questa malattia (un 35-40% in più), in parte perché alcuni dei farmaci oggi più spesso impiegati sono sostanze che interferiscono, in modo diverso, con i meccanismi ormonali. E, giova specificarlo, quando si parla di ormoni si parla di estrogeni e progestinici. Un dato da tenere presente è che, nelle donne in post-menopausa colpite dal tumore, si riscontrano, nel tessuto mammario, livelli di estrogeni molto superiori alla norma e superiori comunque a quelli degli estrogeni circolanti (ovviamente, visto che la produzione ovarica non c'è più) prodotti principalmente dal tessuto adiposo. Inoltre, il 70% dei tumori alla mammella è definito ormonosensibile, e lo si stabilisce dalla presenza nelle cellule neoplastiche dei recettori per gli estrogeni (ER).
Come effettivamente gli ormoni agiscano per promuovere, e sostenere poi, lo sviluppo del tumore, però, non è ancora chiaro fino in fondo. Di sicuro la via non è una sola. Un primo meccanismo è per così dire diretto: una volta nel tessuto mammario, l'estrogeno (estradiolo, ma anche estrone) va incontro a una serie di passaggi metabolici, che danno origine ad altre sostanze. Alcune di queste hanno la capacità di legarsi al DNA cellulare, dando luogo a composti instabili (chiamati addotti); è il caso dell'estrogeno 3,4-chinone, che si lega agli aminoacidi adenina e guanina del DNA e che, in vitro, ha mostrato di determinare delle mutazioni. Ovviamente l'organismo ha meccanismi di difesa nei confronti di questi metaboliti genotossici (cioè che danneggiano il DNA), ma potrebbe ben essere che altre situazioni rendano questa seconda fase del metabolismo degli estrogeni (la detossificazione) meno efficiente. Per esempio, è stato osservato che una sostanza presente negli estrogeni coniugati di cavallo (usati inizialmente nella terapia ormonale sostitutiva) ha l'effetto di inibire uno degli enzimi che dovrebbero inattivare questi derivati pericolosi.L'altra via riguarda, invece, l'azione che si esercita attraverso i recettori degli estrogeni, cioè le microstrutture cui l'estrogeno si lega per esercitare la sua funzione. Qui i meccanismi si fanno anche più complessi, perché vi sono sia effetti diretti sul DNA, sia effetti sulle cellule che prescindono da questo aspetto. Inoltre, le "vie" attivate dai recettori degli estrogeni possono incrociarsi con quelle di altre sostanze, come il fattore di crescita epidermico o il fattore di crescita insulino-simile. In sintesi, queste diverse catene di eventi mirerebbero a due fatti importanti: promuovere la proliferazione cellulare e impedire l'apoptosi, cioè il suicidio delle cellule anomale, che è il principale processo con il quale l'organismo si difende dai tumori. Però, in tutte queste descrizioni il condizionale è d'obbligo, visto che studi negli esseri umani non ne sono stati condotti, oppure, quando sono stati condotti, per esempio per vedere l'influsso delle mutazioni genetiche relative al potenziamento di questo o quel meccanismo, erano così piccoli da essere poco conclusivi.
L'unica cosa che si sa con certezza è che i tumori che presentano l'espressione dei recettori estrogenici rispondono discretamente ad alcune terapie, che per comodità possono essere definite ormonali. In effetti ne esistono di due tipi: quelle che mirano a "occupare" i recettori degli estrogeni e quelle che, invece, mirano a ridurre la produzione di estrogeni. Nel primo gruppo rientra il tamoxifene, una sostanza ormai ben collaudata, che oltre che nella cura del tumore viene impiegata per prevenire la comparsa di eventuali tumori nella mammella controlaterale. Tecnicamente il tamoxifene viene definito un "modulatore selettivo dei recettori degli estrogeni", in quanto ha un'azione differente sui diversi tipi di recettore, esattamente come un'altra sostanza, il raloxifene, inizialmente studiata per trattare l'osteoporosi che ha rivelato anche una certa attività antitumorale. La seconda strada è invece quella percorsa dagli inibitori dell'aromatasi (letrozolo, anastrozolo e altri), sostanze che inibiscono l'azione di un enzima (l'aromatasi, appunto) fondamentale per la sintesi dell'estrogeno. In alcune situazioni questi ultimi hanno mostrato un'efficacia superiore anche al tamoxifene. Tuttavia questi sono approcci per così dire classici (si limita l'attività dei recettori o si limita la quantità di ormone endogeno), ma ci si attende molto anche ad approcci che sfruttino le sovrapposizioni tra diversi meccanismi. Per esempio, si è già visto che in alcuni casi di tumori resistenti al tamoxifene, pur essendo teoricamente ormonosensibili, è possibile rendere efficace il farmaco agendo su un altro recettore, quello della tirosin-chinasi. Insomma, c'è un universo di relazioni tra fenomeni diversi che deve essere indagato ma che promette di svelare nuovi punti deboli del tumore.
Maurizio Imperiali
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Il bersaglio è il DNA
Come effettivamente gli ormoni agiscano per promuovere, e sostenere poi, lo sviluppo del tumore, però, non è ancora chiaro fino in fondo. Di sicuro la via non è una sola. Un primo meccanismo è per così dire diretto: una volta nel tessuto mammario, l'estrogeno (estradiolo, ma anche estrone) va incontro a una serie di passaggi metabolici, che danno origine ad altre sostanze. Alcune di queste hanno la capacità di legarsi al DNA cellulare, dando luogo a composti instabili (chiamati addotti); è il caso dell'estrogeno 3,4-chinone, che si lega agli aminoacidi adenina e guanina del DNA e che, in vitro, ha mostrato di determinare delle mutazioni. Ovviamente l'organismo ha meccanismi di difesa nei confronti di questi metaboliti genotossici (cioè che danneggiano il DNA), ma potrebbe ben essere che altre situazioni rendano questa seconda fase del metabolismo degli estrogeni (la detossificazione) meno efficiente. Per esempio, è stato osservato che una sostanza presente negli estrogeni coniugati di cavallo (usati inizialmente nella terapia ormonale sostitutiva) ha l'effetto di inibire uno degli enzimi che dovrebbero inattivare questi derivati pericolosi.L'altra via riguarda, invece, l'azione che si esercita attraverso i recettori degli estrogeni, cioè le microstrutture cui l'estrogeno si lega per esercitare la sua funzione. Qui i meccanismi si fanno anche più complessi, perché vi sono sia effetti diretti sul DNA, sia effetti sulle cellule che prescindono da questo aspetto. Inoltre, le "vie" attivate dai recettori degli estrogeni possono incrociarsi con quelle di altre sostanze, come il fattore di crescita epidermico o il fattore di crescita insulino-simile. In sintesi, queste diverse catene di eventi mirerebbero a due fatti importanti: promuovere la proliferazione cellulare e impedire l'apoptosi, cioè il suicidio delle cellule anomale, che è il principale processo con il quale l'organismo si difende dai tumori. Però, in tutte queste descrizioni il condizionale è d'obbligo, visto che studi negli esseri umani non ne sono stati condotti, oppure, quando sono stati condotti, per esempio per vedere l'influsso delle mutazioni genetiche relative al potenziamento di questo o quel meccanismo, erano così piccoli da essere poco conclusivi.
Curare bloccando gli estrogeni
L'unica cosa che si sa con certezza è che i tumori che presentano l'espressione dei recettori estrogenici rispondono discretamente ad alcune terapie, che per comodità possono essere definite ormonali. In effetti ne esistono di due tipi: quelle che mirano a "occupare" i recettori degli estrogeni e quelle che, invece, mirano a ridurre la produzione di estrogeni. Nel primo gruppo rientra il tamoxifene, una sostanza ormai ben collaudata, che oltre che nella cura del tumore viene impiegata per prevenire la comparsa di eventuali tumori nella mammella controlaterale. Tecnicamente il tamoxifene viene definito un "modulatore selettivo dei recettori degli estrogeni", in quanto ha un'azione differente sui diversi tipi di recettore, esattamente come un'altra sostanza, il raloxifene, inizialmente studiata per trattare l'osteoporosi che ha rivelato anche una certa attività antitumorale. La seconda strada è invece quella percorsa dagli inibitori dell'aromatasi (letrozolo, anastrozolo e altri), sostanze che inibiscono l'azione di un enzima (l'aromatasi, appunto) fondamentale per la sintesi dell'estrogeno. In alcune situazioni questi ultimi hanno mostrato un'efficacia superiore anche al tamoxifene. Tuttavia questi sono approcci per così dire classici (si limita l'attività dei recettori o si limita la quantità di ormone endogeno), ma ci si attende molto anche ad approcci che sfruttino le sovrapposizioni tra diversi meccanismi. Per esempio, si è già visto che in alcuni casi di tumori resistenti al tamoxifene, pur essendo teoricamente ormonosensibili, è possibile rendere efficace il farmaco agendo su un altro recettore, quello della tirosin-chinasi. Insomma, c'è un universo di relazioni tra fenomeni diversi che deve essere indagato ma che promette di svelare nuovi punti deboli del tumore.
Maurizio Imperiali
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