20 dicembre 2007
Aggiornamenti e focus
Prima del bisturi con giudizio
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Il trattamento del carcinoma mammario si è indubbiamente evoluto con successo. Ma anche il successo pone qualche problema, soprattutto in termini di scelta tra diverse possibilità di cura. Che il primo passo da compiere sia l'asportazione della lesione non si discute nemmeno e che successivamente all'intervento sia utile procedere alla chemioterapia è un punto ormai provato. Il ricorso agli antiblastici tradizionali, ai trattamenti ormonali (per esempio quelli a base di tassani) o di agenti biologici ha mostrato di essere, come ricorda un recente editoriale della rivista statunitense JAMA, un reale beneficio in termini di salute pubblica, visto che aumenta la sopravvivenza senza malattia e la sopravvivenza in assoluto, e la sua adozione è un esempio di medicina basata sull'evidenza. Discorso differente quello che riguarda invece la chemioterapia eseguita prima dell'intervento chirurgico, cioè quella neoadiuvante. Molti studi sono stati condotti a questo proposito, con risultati che richiedono un'attenta interpretazione. I farmaci impiegati sono in larga misura gli stessi, in particolare la doxorubicina e il paclitaxel, impiegati da soli o in sequenza.
Secondo l'articolo di JAMA, oggi sono tre i gruppi di pazienti per i quali è applicabile questo approccio. Il primo è costituito dalle donne che hanno una lesione operabile ma con indicazione alla mastectomia radicale. In questo caso la terapia, riducendo il volume del tumore, potrebbe permettere un intervento conservativo. Il secondo gruppo comprende le donne in cui purtroppo il tumore non è operabile, e qui lo scopo è, più e oltre che la riduzione del tumore primario, agire sulle metastasi. Infine, vi sono le pazienti arruolate nei trial clinici.
Ma anche stabilito questo primo criterio, c'è da considerare la risposta al trattamento: diversi studi hanno mostrato che accanto a una quota rispettabile di pazienti che traggono un beneficio evidente, altre non mostrano una risposta significativa, oppure non rispondono affatto. La soluzione più semplice, si potrebbe pensare, è aumentare la durata del trattamento o, magari, passare da un farmaco antiblastico a un tassano. Però non funziona a questo modo: effettivamente chi ha mostrato una buona risposta iniziale si giova dell'eventuale cambiamento di farmaco, ma se la risposta era insoddisfacente all'inizio, aggiungere o cambiare serve a poco. In definitiva, l'insuccesso iniziale sembra predire l'inutilità di proseguire su questa strada.
C'è poi da tenere presente che l'uso di questi farmaci, poco o tanto, produce un danno sui linfonodi interessati, quindi rende più problematico il ricorso, a seguito dell'eventuale intervento di mastectomia, alla tecnica del linfonodo sentinella, cioè rende difficile scoprire in modo meno invasivo se si è avuta una disseminazione verso altre regioni (l'alternativa è la rimozione di tutti i linfonodi del cavo ascellare).
Non è detto che la situazione non possa cambiare in presenza di altri farmaci, o magari potendo studiare le caratteristiche molecolari della malattia capaci di indirizzare la scelta della terapia ottimale. Secondo le conclusione degli autori, infatti la chemio neoadiuvante è una risorsa importante, su cui per ora si sanno alcune cose con certezza e altre vanno ancora studiate. Insomma, come dice il titolo del commento, non è né un miracolo né un miraggio.
Maurizio Imperiali
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Quando ricorrere al farmaco
Secondo l'articolo di JAMA, oggi sono tre i gruppi di pazienti per i quali è applicabile questo approccio. Il primo è costituito dalle donne che hanno una lesione operabile ma con indicazione alla mastectomia radicale. In questo caso la terapia, riducendo il volume del tumore, potrebbe permettere un intervento conservativo. Il secondo gruppo comprende le donne in cui purtroppo il tumore non è operabile, e qui lo scopo è, più e oltre che la riduzione del tumore primario, agire sulle metastasi. Infine, vi sono le pazienti arruolate nei trial clinici.
Ma anche stabilito questo primo criterio, c'è da considerare la risposta al trattamento: diversi studi hanno mostrato che accanto a una quota rispettabile di pazienti che traggono un beneficio evidente, altre non mostrano una risposta significativa, oppure non rispondono affatto. La soluzione più semplice, si potrebbe pensare, è aumentare la durata del trattamento o, magari, passare da un farmaco antiblastico a un tassano. Però non funziona a questo modo: effettivamente chi ha mostrato una buona risposta iniziale si giova dell'eventuale cambiamento di farmaco, ma se la risposta era insoddisfacente all'inizio, aggiungere o cambiare serve a poco. In definitiva, l'insuccesso iniziale sembra predire l'inutilità di proseguire su questa strada.
Il danno linfonodale
C'è poi da tenere presente che l'uso di questi farmaci, poco o tanto, produce un danno sui linfonodi interessati, quindi rende più problematico il ricorso, a seguito dell'eventuale intervento di mastectomia, alla tecnica del linfonodo sentinella, cioè rende difficile scoprire in modo meno invasivo se si è avuta una disseminazione verso altre regioni (l'alternativa è la rimozione di tutti i linfonodi del cavo ascellare).
Non è detto che la situazione non possa cambiare in presenza di altri farmaci, o magari potendo studiare le caratteristiche molecolari della malattia capaci di indirizzare la scelta della terapia ottimale. Secondo le conclusione degli autori, infatti la chemio neoadiuvante è una risorsa importante, su cui per ora si sanno alcune cose con certezza e altre vanno ancora studiate. Insomma, come dice il titolo del commento, non è né un miracolo né un miraggio.
Maurizio Imperiali
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