18 gennaio 2008
Aggiornamenti e focus
Basta la parola?
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Lo dicono le statistiche, il tempo medio che intercorre tra l'insorgere dei primi sintomi della malattia e il contatto con la struttura di cura è di quattro anni e mezzo. E la colpa spesso sta nei pregiudizi, quelle conoscenze incomplete e distorte sulla schizofrenia che portano allo stigma, ossia il marchio che caratterizza il malato psichico e si proietta sul gruppo sociale di appartenenza. Un problema considerevole, se l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha delineato un programma globale contro lo stigma della schizofrenia che, ora, secondo quanto riportato in un recente articolo da Lancet, comincia a dare i suoi effetti. Già, perché finalmente, secondo quanto sostenuto dalla rivista britannica, le campagne di informazione hanno sensibilizzato l'opinione pubblica. In particolare quelle rivolte agli infermieri e ai medici che hanno a che fare con i malati, come a dire che spesso sono gli operatori sanitari i primi ad avere atteggiamenti che sostengono lo stigma. Tra gli operatori sanitari c'è chi pensa che il problema sta proprio nel concetto di schizofrenia, una parola che non definisce una specifica malattia e che finisce per generare solo pregiudizi, che distruggono in molti casi le vite dei pazienti e delle loro famiglie. Il risultato, come sostenuto da un docente britannico, Richard Bentall, è che paradossalmente è meglio essere schizofrenici in Africa, dove i servizi psichiatrici sono limitatissimi, che non nel Regno Unito. Sull'onda di questa convinzione Bentall e altri suoi colleghi hanno lanciato una campagna contro la parola schizofrenia, sostenendo che per i pazienti è meglio se il medico si focalizza sui sintomi piuttosto che concentrarsi sulla catalogazione. Una provocazione, raccolta immediatamente da altri colleghi che sulle pagine del British Medical Journal hanno manifestato la loro perplessità.
E' un problema delle malattie psichiatriche, spiega Jeffrey Lieberman, e della loro diagnosi quello di non poter essere incluse in entità definitive. Ma sono solo concetti, giustificati dalla necessità di organizzare e spiegare la complessità dell'esperienza clinica, in modo da dedurre gli esiti e da prendere decisioni rispetto alle terapie. Quindi, continua Lieberman, se anche la validità della diagnosi fosse da stabilire, la sua utilità è indiscutibile. Tanto è vero che da 100 anni a questa parte l'inquadramento della malattia ha facilitato ricerca e cure. E oggi esistono certezze sulla malattia, che, per esempio, non è causata da uno sviluppo psicologico disturbato né da cause familiari. Le persone affette da schizofrenia hanno anomalie sia nella struttura sia nella funzionalità cerebrale, e si tratta di alterazioni oggettive. Così come è indiscutibile un ruolo della genetica, anche se ancora da definirsi. Inoltre, quanto più questa diagnosi è precoce tanto migliore potrà essere l'outcome, ossia il risultato delle cure. Infine la diagnosi è utile anche per spiegare al paziente e ai suoi familiari la natura del disturbo e la ragione di un certo tipo di intervento.
Detto questo, esistono anche svantaggi e una eventuale diagnosi sbagliata può essere molto pericolosa, in particolare - appunto - per lo stigma che ne risulta. Di fronte a tutto questo può essere utile cambiare nome alla malattia? Se si parlasse di disordine dopaminergico le cose cambierebbero? Purtroppo no, sostiene Lieberman, secondo il quale le radici profonde dello stigma rimarrebbero, ossia l'ignoranza rispetto alla malattia, i pregiudizi e la paura. Piuttosto, dice il ricercatore, importante è progredire nella ricerca e nella conoscenza della malattia in modo da riuscire a chiarire i meccanismi fisiopatologici che la caratterizzano. Le risposte non sono mancate: in una lettera alla rivista un altro docente, David Kingdon, si dice in disaccordo, ribadendo l'importanza della semantica. Non è un caso, sostiene Kingdon, che marketing e aziende di pubbliche relazioni, giochino molto sul nome per migliorare l'immagine dei prodotti. Il dibattito potrebbe durare all'infinito. Le parole sono importanti non c'è dubbio, ma forse si dovrebbe cominciare dalla cultura e dall'educazione dell'opinione pubblica.
Marco Malagutti
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Inquadrare conta
E' un problema delle malattie psichiatriche, spiega Jeffrey Lieberman, e della loro diagnosi quello di non poter essere incluse in entità definitive. Ma sono solo concetti, giustificati dalla necessità di organizzare e spiegare la complessità dell'esperienza clinica, in modo da dedurre gli esiti e da prendere decisioni rispetto alle terapie. Quindi, continua Lieberman, se anche la validità della diagnosi fosse da stabilire, la sua utilità è indiscutibile. Tanto è vero che da 100 anni a questa parte l'inquadramento della malattia ha facilitato ricerca e cure. E oggi esistono certezze sulla malattia, che, per esempio, non è causata da uno sviluppo psicologico disturbato né da cause familiari. Le persone affette da schizofrenia hanno anomalie sia nella struttura sia nella funzionalità cerebrale, e si tratta di alterazioni oggettive. Così come è indiscutibile un ruolo della genetica, anche se ancora da definirsi. Inoltre, quanto più questa diagnosi è precoce tanto migliore potrà essere l'outcome, ossia il risultato delle cure. Infine la diagnosi è utile anche per spiegare al paziente e ai suoi familiari la natura del disturbo e la ragione di un certo tipo di intervento.
L'importanza del nome
Detto questo, esistono anche svantaggi e una eventuale diagnosi sbagliata può essere molto pericolosa, in particolare - appunto - per lo stigma che ne risulta. Di fronte a tutto questo può essere utile cambiare nome alla malattia? Se si parlasse di disordine dopaminergico le cose cambierebbero? Purtroppo no, sostiene Lieberman, secondo il quale le radici profonde dello stigma rimarrebbero, ossia l'ignoranza rispetto alla malattia, i pregiudizi e la paura. Piuttosto, dice il ricercatore, importante è progredire nella ricerca e nella conoscenza della malattia in modo da riuscire a chiarire i meccanismi fisiopatologici che la caratterizzano. Le risposte non sono mancate: in una lettera alla rivista un altro docente, David Kingdon, si dice in disaccordo, ribadendo l'importanza della semantica. Non è un caso, sostiene Kingdon, che marketing e aziende di pubbliche relazioni, giochino molto sul nome per migliorare l'immagine dei prodotti. Il dibattito potrebbe durare all'infinito. Le parole sono importanti non c'è dubbio, ma forse si dovrebbe cominciare dalla cultura e dall'educazione dell'opinione pubblica.
Marco Malagutti
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