Visitate il soldato Ryan

18 marzo 2005
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Guerra, soprattutto dopo l'esperienza statunitense nel Vietnam, significa anche danni psichici tra le popolazioni civili colpite ma anche tra le forze combattenti. Non è un caso che uno dei film più discussi di quest'anno, The Manchurian Candidate, veda al centro della vicenda le turbe psichiatriche di ex combattenti della prima Guerra del Golfo. Di qui la richiesta di condurre sui militari, programmi di screening che permettano sia di individuare le persone suscettibili di sviluppare disturbi mentali dopo l'inizio delle operazione, sia di intercettare tra i reduci chi presenta disturbi che richiedono le cure del caso.

Screening di massa


Del tema si è occupato un editoriale della rivista statunitense JAMA; qui si spiega che screening di massa erano stati avviati durante la II guerra mondiale, ma furono sospesi nel 1944, perché avevano indotto a scartare un numero enorme di reclute, molte delle quali si sono poi dimostrate in grado di svolgere il servizio senza inconvenienti. Però la richiesta rimane e allora gli autori, lungi dal negare la necessità, pongono però alcune limitazioni. Per cominciare, si deve avere la certezza che gli screening siano in gradi di accertare realmente delle condizioni serie: precedenti esperienze hanno mostrato che sintomi di depressione, ansia, stress post-traumatico e somatizzazioni (accusare disturbi fisici di origine però psicologica), ma che non necessariamente rinviavano a veri e propri disturbi. Altri questionari specifici per il disturbo da stress post-traumatico hanno invece dato esiti scarsissimi: per esempio due soli positivi su 592 persone. Resta poi da stabilire quanto possano essere compresi correttamente i questionari da parte di reclute spesso giovanissime.

Efficacia, accettabilità, utilità


Questi test dovrebbero poi essere accettabili da parte della popolazione cui sono destinati e nell'ambiente militare è tutt'altro che scontata l'accettazione. Indagini condotte finora mostrano che nell'esercito statunitense la risposta non supera il 75% e in media è su percentuali molto più basse. Tra i militari britannici, inoltre, vi è molta ansia rispetto alle possibili conseguenze sulla carriera, mentre tra quelli statunitensi può prevalere, nel dare le risposte, il desiderio di ritornare al più presto a riposo o di garantirsi l'assistenza sanitaria. Insomma non mancano circostanze che possono indurre alla sovrastima o alla sottostima della prevalenza dei disturbi. Peraltro mancano anche criteri di validazione dei questionari che vengono in questo caso usati non in una popolazione standard ma in un gruppo particolare, senza contare che non è neppure stabilito che attuare uno screening riduca effettivamente l'insorgere poi di problemi sul campo. In altre parole può ben essere che suscettibili, una volta che fischiano le pallottole, si diventi. Ma anche per i reduci potrebbero esserci controindicazioni, come quella molto temuta dello stigma. Si fa in fretta, è il timore, a far passare per matti tutti coloro che hanno partecipato a questa o a quella guerra. L'alternativa allo screening, che in fin dei conti per gli autori ha un valore molto inferiore a quanto si creda, è il miglioramento del personale medico militare, soprattutto quello che opera sul fronte. Questi medici dovrebbero essere in grado di riconoscere e affrontare le patologie psichiatriche quando si presentano. Anche se, sullo sfondo folle della guerra, le più piccole "follie" individuali sono ardue da cogliere.

Maurizio Imperiali



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