11 marzo 2011
Aggiornamenti e focus
Tubercolosi, contagio a colpi di tosse
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In tempi di pandemie, tra influenza suina e aviaria, parlare di tubercolosi (Tbc) sembra un viaggio nel tempo, eppure, per quanto relativamente rara in Italia, non è una malattia scomparsa. E quando torna alla ribalta nelle cronache, come in questi giorni, solleva timori e paura del contagio: «Il contagio potenzialmente può avvenire dovunque» spiega Luigi Codecasa responsabile in Lombardia del Centro di riferimento regionale per la tubercolosi, Villa Marelli-Niguarda, «ma è naturale che ci siano luoghi più o meno a rischio».
La Tbc è una malattia infettiva causata dal Mycobacterium tubercolosis che colpisce nella maggioranza dei casi i polmoni, ed è proprio la dispersione di particelle provenienti dai polmoni che espone al rischio di contrarre l'infezione. Il rischio di contagio aumenta, quindi, negli ambienti chiusi, magari a riciclo d'aria, in cui la presenza di un solo malato espone tutte le persone presenti a un uniforme rischio di contagio. Tuttavia la trasmissione non è così scontata: «Innanzitutto, avviene da persona malata con forma polmonare contagiosa» precisa Codecasa «e il rischio di contagio c'è se si sta per un periodo significativo, per esempio alcune ore, nello stesso ambiente chiuso, come casa, scuola, luogo di lavoro». Il bacillo può essere disseminato con un colpo di tosse, o uno starnuto: «La saliva non è un mezzo potente di trasmissione» precisa l'esperto. «E' molto più pericoloso parlare con un malato o dormire nella stessa stanza. Ma se, per esempio, un familiare è malato vanno, comunque, prese le normali precauzioni in caso di patologie infettive».
La tubercolosi non è una malattia facile da individuare precocemente perché si presenta con sintomi e segni aspecifici e simili a molte malattie respiratorie: tosse, dimagrimento, poco appetito, sudorazioni notturne, febbre. Ma, poiché la soglia di attenzione a livello mondiale è alta, la stessa Organizzazione mondiale della sanità ha raccomandato di procedere con una diagnosi differenziale per escludere la tubercolosi nei casi sospetti. Ciò che deve spingere ad alzare il livello di attenzione è la durata e la persistenza dei sintomi nonostante si stia facendo la terapia adeguata. «Quando i sintomi non vengono risolti da una normale terapia per tosse, bronchite, influenza allora, come indicato dall'Oms» ribadisce Codecasa «si devono fare accertamenti che includano tra le possibili diagnosi la Tbc, basati sull'anamnesi del paziente inclusa la sua provenienza geografica, la valutazione da parte di uno specialista, una radiolografia del torace e una esame microbiologico dell'espettorato per la ricerca di bacilli». Si tratta di una patologia relativamente rara in Italia: « Si parla di un'incidenza di 10 casi ogni 100 mila abitanti, con 4.500 casi all'anno» spiega l'esperto «cui vanno aggiunti 1.500 casi che sfuggono ai sistemi di raccolta dati. E il 50% dei casi sono cittadini stranieri provenienti da paesi in cui la tbc è endemica, vale a dire il Sud America, il Sud Est asiatico, l'Europa centro orientale e l'Africa sub sahariana». Ma oltre agli stranieri vanno considerati a rischio anche coloro che sono in contatto con pazienti, per esempio i familiari e le persone anziane che hanno vissuto in periodi in cui era presente la malattia. «Il bacillo può restare latente per decenni, e "slatentizzarsi" se il soggetto sviluppa immunodeficienze o assume farmaci immunosoppressori, o attraversa un periodo di debolezza immunitaria e stress psicofisico».
Il protocollo terapeutico della malattia attiva prevede un regime polifarmacologico con una fase di attacco di due mesi, in cui si assumono quattro farmaci: rifampicina, isoniazide, pirazinamide, etambutolo. Poi si prosegue per quattro mesi con rifampicina, isoniazide. Ma è importante trattare anche le forme latenti, come ricorda Codecasa: «In questi casi, cioè quando il test di Mantoux risulta positivo, la radiografia toracica è normale ma c'è un rischio alto si adotta una monoterapia con uno di questi due farmaci». La probabilità di successo con questo schema terapeutico è del 97%, ma nelle forme resistenti a rifampicina e isoniazide, la percentuale scende al 50%. «Le forme resistenti sono state isolate in zone dell'Asia centrale e del Caucaso, nelle repubbliche ex sovietiche e in Cina, ma in Italia ci sono per ora pochi ceppi, poiché la loro diffusione dipende dai flussi migratori».
Simona Zazzetta
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