Come evitare il peggio

11 novembre 2005
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Come evitare il peggio



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L'aspetto più pericoloso del diabete è che induce una serie di altre malattie o alterazioni - le complicanze - tutte piuttosto gravi. Non si tratta di un processo inarrestabile e, anzi, in effetti è correlato al controllo della malattia che si riesce a ottenere: tanto più la glicemia è costantemente nei valori normali, tanto più lento è il deteriorarsi dei tessuti e degli organi danneggiati dall'elevato livello di zucchero nel sangue attraverso il processo della glicosilazione. L'effetto degenerativo dovuto alla glicosilazione colpisce soprattutto i vasi arteriosi e i nervi. Ovviamente, in funzione della localizzazione dei vasi colpiti si hanno diverse manifestazioni.

Quando si compromettono i vasi


Nel paziente diabetico si presenta un invecchiamento più rapido dei grandi vasi arteriosi (macroangiopatia diabetica) che conduce all'aterosclerosi, cioè alla formazione di placca sulla parete interna del vaso. Si tenga presente che al diabete sono spesso associati altri fattori di rischio cardiovascolare, quali ipertensione, ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia. L'insieme di questi fattori aumenta enormemente il rischio di angina, infarto miocardico, trombosi cerebrale, tanto che il 70 per cento dei decessi nei diabetici è dovuto ad accidenti legati all'aterosclerosi. Gli stessi meccanismi possono presentarsi anche nei vasi periferici, come quelli degli arti inferiori. Venendo così impedito l'afflusso di sangue si hanno in primo luogo dolore e difficoltà di movimento; a più lunga scadenza anche vere e proprie cancrene. Queste vasculopatie periferiche sono 40 volte più frequenti tra i soggetti diabetici.
Accanto alla macro, esiste anche la microangiopatia diabetica, cioè la degenerazione dei piccoli vasi arteriosi. In particolare, possono risentirne le arteriole dei glomeruli renali, le strutture che filtrano il sangue depurandolo dalle sostanze di scarto. Il danno alle arteriole diminuisce la capacità di filtro dei glomeruli, cosa che comporta, tra l'altro, maggiore suscettibilità alle infezioni delle vie urinarie e ipertensione. Il processo degenerativo è progressivo e può condurre all'insufficienza renale cronica e, quindi, alla dialisi.
Un'altra grave conseguenza del danno ai piccoli vasi è la retinopatia diabetica. In questo caso la compromissione delle arteriole che attraversano la retina causa l'edema (gonfiore) della retina e della macula. A volte le arteriole giungono a rompersi creando microemorragie che, in alcuni casi, offuscano la visione. La forma più grave di questa malattia è la retinopatia proliferativa, nella quale si formano nuovi vasi sanguigni molto fragili che invadono lo spazio interno dell'occhio, invadendo il corpo vitreo. Se si rompono, e l'emorragia è molto estesa, può essere impedita completamente la visione, e si ha un aumento rapido della pressione interna dell'occhio. La formazione di tessuto fibroso nell'occhio può però condurre anche al distacco della retina. Questa complicanza riguarda circa il 25 per cento della popolazione diabetica, ma solo il 5 per cento presenta la forma proliferativa.

La glicemia dà sui nervi


L'altra grande conseguenza dell'iperglicemia prolungata è la neuropatia diabetica. Si tratta di una degenerazione delle cellule nervose, in particolare dell'assone che è la parte allungata del neurone. La neuropatia diabetica può colpire qualsiasi terminazione nervosa e qualsiasi nervo, causando una diminuzione della conduzione degli impulsi nervosi sia motori (che comandano un'azione) sia sensori (che conducono al cervello una sensazione). La neuropatia diabetica provoca dolore e parestesie, cioè alterazioni della sensibilità, ma sintomi e segni variano a seconda del nervo o della terminazione nervosa colpita, per questo si possono anche avere disturbi a carico del sistema nevoso autonomo (per esempio atonia della vescica, paralisi dello stomaco e altro). Sono un effetto della neuropatia diabetica, e della microangiopatia, le ulcere piedi che, se non prevenute o curate tempestivamente, conducono alla cancrena. Stimare in quale misura si presenti questa complicanza è reso complesso dal tipo di test utilizzati per la diagnosi, ma si ritiene che circa il 30 per cento di chi soffre di diabete da almeno 10 anni sia colpito in qualche misura.

I trattamenti

In effetti esistono trattamenti specifici per le diverse complicanze. Per esempio la nefropatia può essere contrastata con un trattamento antipertensivo, visto che ormai da tempo è provato che alcune molecole (ACE-inibitori) sono particolarmente efficaci nel conservare la funzione renale. Ed è anche vero che sono stati presentati studi in cui si sottolinea l'importanza di un approccio globale: nel diabetico è fondamentale agire su pressione arteriosa e ipercolesterolemia. Tuttavia nessun trattamento può prescindere dal controllo del fattore principale: l'iperglicemia. Per questo da alcuni anni la parola d'ordine è "trattamento aggressivo", il che significa usare ipoglicemizzanti e insulina in modo da tenere quanto più possibile e più a lungo il paziente entro valori glicemici normali. Significa anche aumentare le visite di controllo e gli screening per le complicanze. Tutto questo, ovviamente, ha un costo in termini di risorse ed economici: il trattamento aggressivo del diabete tipo 1, secondo dati statunitensi del primo grande studio dedicato a questo tema, ha un costo triplo rispetto al trattamento standard. D'altra parte, sempre lo stesso studio ha dimostrato che si ottiene una riduzione delle complicanze dal 40 al 70% e all'80% e più nel caso della retinopatia. Risultati analoghi sono stati ottenuti, in uno studio britannico, per il diabete tipo 2. In questa forma, che colpisce prevalentemente le persone obese, vi è una possibilità in più di intervento migliorativo: la riduzione del peso. Studi statunitensi hanno dimostrato che in pazienti con indice di massa corporea pari a 30-40 kg/m2, la perdita di 9-15 kg di peso ha ridotto notevolmente la necessità di ricorrere al farmaco. Prima della dieta era stato, infatti, calcolato un esborso mensile di 63,30 dollari, divenuti poco più di 20 al termine della dieta e risaliti a 32 nel follow up a un anno, quando si era verificato un parziale recupero del peso perso.

Annapaola Medina



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