18 aprile 2008
Aggiornamenti e focus
Pap-test positivo? Meglio essere aggressivi
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Che dalle displasie del collo dell'utero si possa in una grande percentuale di casi passare al tumore invasivo è un dato di fatto, che discende da molte osservazioni retrospettive, ma non da uno studio controllato, cioè paragonando che cosa accade se si interviene in presenza di una lesione e che cosa accade lasciando che la situazione evolva da sola. Questo non è stato possibile perché è ovvio che una simile sperimentazione non sarebbe etica viste le moltissime prove della pericolosità delle displasie. C'è stata però in passato un'eccezione: in Nuova Zelanda, al National Women's Hospital di Auckland, sulla base della convinzione di uno dei medici che vi operavano, su un buon numero di donne non venne effettuato nessun trattamento, benché i test citologici, cioè il benemerito Pap-test, avesse rivelato la presenza di un carcinoma in situ nel periodo dal 1965 al 1974. Lo studio venne poi ritenuto non etico e interrotto a seguito di un'inchiesta giudiziaria nel 1987-1988. In quell'occasione vennero riviste tutte le registrazioni relative alla diagnosi, alle indagini citologiche e istologiche, cioè quelle che si conducono mediante biopsia. Di qui l'origine di un nuovo esame, condotto tra il 2001 e il 2004, di un campione di oltre 1000 donne, che i ricercatori hanno suddiviso in funzione del trattamento subito e determinando la loro storia clinica successiva: sviluppo o meno di un tumore invasivo e successivi interventi.
Un lavoro non facile, anche perché già la stessa definizione delle lesioni è cambiata nel tempo, tuttavia si è riuscita a stabilire che la diagnosi di carcinoma in situ o CIS a cavallo tra gli anni sessanta e settanta equivale a quella di CIN3 oggi in uso, che indica la presenza di un tumore che ha invaso l'epitelio ma non ha raggiunto il tessuto più profondo. Dopodiché le donne sono state suddivise in gruppi in funzione del trattamento che poteva essere: adeguato, probabilmente adeguato, probabilmente inadeguato e inadeguato. Per valutare l'adeguatezza del trattamento si è tenuto conto dei successivi test citologici, dell'esecuzione di biopsie e, ovviamente, di eventuali interventi curativi. L'end point clinico, era la comparsa di un carcinoma invasivo della cervice uterina o della vagina. Si distinguevano così le donne le cui lesioni erano state poco o nulla disturbate e quelle in cui si era proceduto per eliminarle. All'epoca dell'inizio dello studio si ricorreva con una certa frequenza all'isterectomia totale, ma anche l'esecuzione di una biopsia, soprattutto mediante conizzazione, in caso di lesione di dimensioni contenute poteva mettere capo a un trattamento risolutivo.
In definitiva sono state identificate 1063 donne che avevano avuto una diagnosi di lesione CIN3 e di cui era disponibile tutta la documentazione necessaria. Di queste, 143 avevano subito come solo intervento una biopsia non invasiva, mediante ago o curettaggio, e in queste il rischio cumulativo di carcinoma invasivo a 30 anni dalla diagnosi era pari al 30% e nel sottogruppo che mostrava segni di permanenza della malattia al Pap-test nei 24 mesi successivi alla diagnosi e alla biopsia il rischio saliva al 50%. Il rischio a 30 anni, invece, era pari soltanto allo 0.7% nelle 593 donne che avevano ricevuto un trattamento adeguato o probabilmente adeguato alla prima diagnosi e che, nel caso di ricaduta, avevano ricevuto il trattamento convenzionale. Così, da uno studio che non avrebbe a rigore nemmeno dovuto cominciare si è avuta una risposta importante, anche perché seppure vi sia stata la scelta discutibile di non intervenire in alcuni casi, le donne coinvolte sono state seguite per lungo tempo, con una discreta frequenza di test di controllo. Certo la lezione non cambia: le lesioni gravi del collo dell'utero vanno trattate, soprattutto oggi che si sa essere sufficienti anche interventi moderatamente invasivi, come la conizzazione. E soprattutto ottiene un'ennesima conferma la validità del Pap-test, che senz'altro potrà essere migliorato, ma ancora offre un rapporto costo/beneficio difficilmente superabile.
Maurizio Imperiali
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Un campione numeroso
Un lavoro non facile, anche perché già la stessa definizione delle lesioni è cambiata nel tempo, tuttavia si è riuscita a stabilire che la diagnosi di carcinoma in situ o CIS a cavallo tra gli anni sessanta e settanta equivale a quella di CIN3 oggi in uso, che indica la presenza di un tumore che ha invaso l'epitelio ma non ha raggiunto il tessuto più profondo. Dopodiché le donne sono state suddivise in gruppi in funzione del trattamento che poteva essere: adeguato, probabilmente adeguato, probabilmente inadeguato e inadeguato. Per valutare l'adeguatezza del trattamento si è tenuto conto dei successivi test citologici, dell'esecuzione di biopsie e, ovviamente, di eventuali interventi curativi. L'end point clinico, era la comparsa di un carcinoma invasivo della cervice uterina o della vagina. Si distinguevano così le donne le cui lesioni erano state poco o nulla disturbate e quelle in cui si era proceduto per eliminarle. All'epoca dell'inizio dello studio si ricorreva con una certa frequenza all'isterectomia totale, ma anche l'esecuzione di una biopsia, soprattutto mediante conizzazione, in caso di lesione di dimensioni contenute poteva mettere capo a un trattamento risolutivo.
Dal 30 al 50% di rischio
In definitiva sono state identificate 1063 donne che avevano avuto una diagnosi di lesione CIN3 e di cui era disponibile tutta la documentazione necessaria. Di queste, 143 avevano subito come solo intervento una biopsia non invasiva, mediante ago o curettaggio, e in queste il rischio cumulativo di carcinoma invasivo a 30 anni dalla diagnosi era pari al 30% e nel sottogruppo che mostrava segni di permanenza della malattia al Pap-test nei 24 mesi successivi alla diagnosi e alla biopsia il rischio saliva al 50%. Il rischio a 30 anni, invece, era pari soltanto allo 0.7% nelle 593 donne che avevano ricevuto un trattamento adeguato o probabilmente adeguato alla prima diagnosi e che, nel caso di ricaduta, avevano ricevuto il trattamento convenzionale. Così, da uno studio che non avrebbe a rigore nemmeno dovuto cominciare si è avuta una risposta importante, anche perché seppure vi sia stata la scelta discutibile di non intervenire in alcuni casi, le donne coinvolte sono state seguite per lungo tempo, con una discreta frequenza di test di controllo. Certo la lezione non cambia: le lesioni gravi del collo dell'utero vanno trattate, soprattutto oggi che si sa essere sufficienti anche interventi moderatamente invasivi, come la conizzazione. E soprattutto ottiene un'ennesima conferma la validità del Pap-test, che senz'altro potrà essere migliorato, ma ancora offre un rapporto costo/beneficio difficilmente superabile.
Maurizio Imperiali
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