Anche l'ambiente fa la sua parte

01 marzo 2006
Aggiornamenti e focus

Anche l'ambiente fa la sua parte



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Se il motto è, sempre e comunque, prevenire è meglio che curare, in alcuni casi non è realizzabile per mancanza di strumenti efficaci. Uno dei quali è la definizione delle categorie a rischio sulle quali fare interventi di screening o limitare i fattori di rischio. Per la malattia di Alzheimer, sussistono ancora queste difficoltà e per quanto sia una patologia in aumento, un po’ per effetto dell’invecchiamento della popolazione un po’ per l’aumento delle diagnosi, non ci sono ancora grandi mezzi per fare una prevenzione appropriata.

Genoma in comune


Uno degli aspetti che è stato spesso indagato è quello genetico, suggerito dall’evidenza che i familiari, intesi come parenti di primo grado di malati di Alzheimer, sono più esposti alla malattia. E sono anche state identificate mutazioni genetiche la cui presenza può rappresentare un fattore di rischio. Ma è vero anche che solo una piccola quantità di casi di Alzheimer si possono spiegare con mutazioni specifiche, che riguardano un particolare gene. Poco coerenti anche le teorie empiriche sui rischi ambientali e sui fattori protettivi.
Uno dei paradigmi operativi più usati per approfondire gli aspetti genetici è rappresentato da coppie di gemelli monozigoti (cioè con tutto il genoma in comune) o dizigoti (con metà del genoma in comune). Studiando una malattia in questo sistema, le coppie possono essere concordanti, cioè entrambi hanno il disturbo, o discordanti, cioè solo uno ne è colpito. Per capire quali possono essere gli effetti ambientali è utile monitorare la coppia di gemelli monozigoti discordante: nonostante abbiano lo stesso corredo, solo uno dei due sviluppa la malattia quindi, in casi del genere, le cause non possono essere genetiche. Infine, confrontando coppie malate e coppie sane, si possono avere indicazioni sui marcatori biologici della malattia che distinguono i malati dai sani e quali fattori di rischio ambientale hanno portato alla malattia solo alcuni gemelli.

La genetica non è tutto


Sulla base di queste premesse, è stato allestito uno studio in cui la popolazione in studio era composta da gemelli registrati nello Swedish Twin Registry e, proprio perché anche l’età è un fattore critico, le coppie sono state scelte nella fascia degli ultrasessantacinquenni. Altro obiettivo era la valutazione di possibili differenze di sesso, quindi sono state incluse anche le coppie di gemelli di sesso diverso. In totale sono state selezionate quasi 12 mila coppie di gemelli, tra le quali c’erano 392 coppie in cui uno o entrambi i gemelli erano pazienti alzheimeriani.
Dall’elaborazione statistica dei dati è emerso che l’ereditarietà della malattia era simile nei due sessi, la frequenza della malattia era più alta nei soggetti più anziani e la probabilità di svilupparla era maggiore nei gemelli monozigoti. Infatti il tasso di concordanza era più alto nelle coppie monozigoti (83%) rispetto a quelle dizigoti (46%).
L’età media di insorgenza dell’Alzheimer di 78,1 anni sia nelle coppie omozigoti sia in quelle dizigoti. Tuttavia all’interno delle coppie concordanti (cioè entrambi con la malattia) la malattia compariva in età diverse, e c’era una differenza significativa tra le coppie dizigoti e monozigoti: tra le 25 coppie monozigoti concordanti passavano, in media, circa 3 anni e mezzo prima che l’altro gemello si ammalasse; la distanza media aumentava a circa 8 anni, nelle coppie dizigoti concordanti. La differenza è stata valutata come significativa e indicativa di un’influenza genetica sulla tempistica con cui si sviluppa la malattia.
Se non ci fossero i fattori ambientali condivisi si spiegherebbe il 79% dei casi di Alzheimer con la sola genetica, ma prendendoli in considerazione l’ereditarietà spiega il 58% dei casi, che resta comunque una percentuale alta. Non a caso i gemelli malati di coppie monozigoti hanno un’età di insorgenza della malattia pressoché simile, mentre tra i gemelli malati dizigotici il ritardo tra un e l’altro è più marcato. Quindi, per quanto i fattori genetici abbiano un impatto rilevante, i fattori di rischio non genetici hanno un ruolo altrettanto importante su cui focalizzare interventi per ridurre il rischio o quanto meno ritardare l’insorgenza della malattia.

Simona Zazzetta



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