21 aprile 2006
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Capire, trattare
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Dal 1817, data nella quale James Parkinson per primo ne ha dato una dettagliata descrizione clinica, il morbo, detto per l'appunto di Parkinson, è stato definito in modo sempre più preciso. La terapia però resta una questione estremamente complessa, tenuto conto dei molti aspetti da prendere in considerazione. Quali? Per cominciare gli aspetti relativi alla qualità della vita del paziente, da bilanciare con gli effetti collaterali dei farmaci e con i costi del trattamento, poi la varietà di sintomi motori e non motori che colpiscono i malati di Parkinson. E' noto per esempio che il trattamento d'eccellenza della malattia, la levodopa, pur nella sua efficacia, presenta effetti collaterali assai disturbanti. Di questi e di altri aspetti si occupano le nupve linee guida per la diagnosi e la cura del Parkinson. Un documento redatto dall'Americano Academy of Neurology (Aan), di imminente pubblicazione sulla rivista Neurology. Ma anche una recente review settimanale del New England Journal of Medicine ha fatto il punto della situazione riguardo alla diagnosi e alla gestione iniziale del paziente parkinsoniano.
I numeri per cominciare. Il parkinsonismo, ossia la sindrome, è, premette la review del New England, un comune disturbo dei movimenti, mentre la malattia di Parkinson vera e propria, che ne è la principale causa, è la seconda malattia neurodegenerativa per frequenza dopo l'Alzheimer. Colpisce circa un milione di americani che vuol dire l'1% dei soggetti over 60. Con l'inevitabile invecchiamento della popolazione il numero dei casi è destinato a raddoppiare nei prossimi 15-20 anni. Ma va detto, come puntualizzano gli esperti dell'Aan che il 5-10% dei malati di Parkinson non riceve una corretta diagnosi. Al momento dell'autopsia si scopre così che fino al 20% delle persone cui era stato diagnosticato il morbo soffrivano in realtà di un'altra malattia. La malattia è, comunque, piuttosto rara prima dei 40 anni e colpisce in particolare gli uomini. Secondo una recente indagine, infatti, il sesso maschile rischia 1,5 volte di più di sviluppare la malattia neurodegenerativa, anche se il perché non è chiaro. Una recente ricerca pubblicata su Current Biology, peraltro, attribuisce a un gene la responsabilità. Si tratta di un gene che è responsabile del sesso maschile degli embrioni e della formazione dei testicoli, ed è prodotto anche nella regione cerebrale bersagliata dal Parkinson. E la terapia?
La terapia è in grado di migliorare significativamente i sintomi ma anche qualità e aspettativa di vita, anche se la malattia rimane associata a disabilità progressiva e incremento della mortalità. Già ma quale terapia? Le scelte a disposizione sono più d'una. La terapia farmacologica contempla anticolinergici, levodopa (L-Dopa) e farmaci agonisti della dopamina. La levodopa è stata per molto tempo il principale strumento farmacologico ma, come detto in precedenza, dopo alcuni anni presenta una riduzione del suo effetto sul paziente e ha fastidiosi effetti collaterali. I dopaminoagonisti sono i farmaci rivelatisi più efficaci negli ultimi anni, consentendo di rimandare il ricorso alla levodopa. Gli anticolinergici, infine, ostacolano l'azione dell'acetilcolina che diventa negativa quando si abbassano i livelli di dopamina per via del Parkinson. Oltre alla terapia farmacologica esiste anche l'opzione chirurgica, sia per distruggere le cellule nervose malfunzionanti sia per autotrapiantare cellule cerebrali in grado di produrre dopamina. Un ultimo sviluppo chirurgico che ha dato i primi risultati, poi, consiste nella neurostimolazione delle cellule mediante l'impianto di elettrodi nel cervello. Ma da dove cominciare la terapia, levodopa o agonisti dopaminergici? L'incertezza permane, dicono gli esperti sul New England. Se, infatti, gli agonisti della dopamina riducono le complicazioni motorie, la loro azione è controbilanciata da una minor efficacia come agenti antiparkinsoniani e da un differente spettro di effetti avversi: sonnolenza, allucinazioni, arrestarsi del movimento. La valutazione della qualità di vita non aiuta nella scelta visto l'assenza di differenze sostanziali. Non a caso le linee guida dell'American Academy of Neurology considerano valide entrambe le alternative iniziali nella cura del Parkinson. Quanto alla sostituzione della dopamina a immediato rilascio con preparazioni a rilascio controllato, per diminuire i rischi di fluttuazioni motorie e discinesia, non esistono ancora certezze sui vantaggi effettivi. Gli studi in corso, conclude il New England, stanno esaminando gli effetti combinati di carbidopa, levodopa e entacapone, un inibitore delle catecol-o-metiltransferasi. I primi risultati sembrano promettenti.
Marco Malagutti
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Diagnosi difficile
I numeri per cominciare. Il parkinsonismo, ossia la sindrome, è, premette la review del New England, un comune disturbo dei movimenti, mentre la malattia di Parkinson vera e propria, che ne è la principale causa, è la seconda malattia neurodegenerativa per frequenza dopo l'Alzheimer. Colpisce circa un milione di americani che vuol dire l'1% dei soggetti over 60. Con l'inevitabile invecchiamento della popolazione il numero dei casi è destinato a raddoppiare nei prossimi 15-20 anni. Ma va detto, come puntualizzano gli esperti dell'Aan che il 5-10% dei malati di Parkinson non riceve una corretta diagnosi. Al momento dell'autopsia si scopre così che fino al 20% delle persone cui era stato diagnosticato il morbo soffrivano in realtà di un'altra malattia. La malattia è, comunque, piuttosto rara prima dei 40 anni e colpisce in particolare gli uomini. Secondo una recente indagine, infatti, il sesso maschile rischia 1,5 volte di più di sviluppare la malattia neurodegenerativa, anche se il perché non è chiaro. Una recente ricerca pubblicata su Current Biology, peraltro, attribuisce a un gene la responsabilità. Si tratta di un gene che è responsabile del sesso maschile degli embrioni e della formazione dei testicoli, ed è prodotto anche nella regione cerebrale bersagliata dal Parkinson. E la terapia?
Si cura ma non si guarisce
La terapia è in grado di migliorare significativamente i sintomi ma anche qualità e aspettativa di vita, anche se la malattia rimane associata a disabilità progressiva e incremento della mortalità. Già ma quale terapia? Le scelte a disposizione sono più d'una. La terapia farmacologica contempla anticolinergici, levodopa (L-Dopa) e farmaci agonisti della dopamina. La levodopa è stata per molto tempo il principale strumento farmacologico ma, come detto in precedenza, dopo alcuni anni presenta una riduzione del suo effetto sul paziente e ha fastidiosi effetti collaterali. I dopaminoagonisti sono i farmaci rivelatisi più efficaci negli ultimi anni, consentendo di rimandare il ricorso alla levodopa. Gli anticolinergici, infine, ostacolano l'azione dell'acetilcolina che diventa negativa quando si abbassano i livelli di dopamina per via del Parkinson. Oltre alla terapia farmacologica esiste anche l'opzione chirurgica, sia per distruggere le cellule nervose malfunzionanti sia per autotrapiantare cellule cerebrali in grado di produrre dopamina. Un ultimo sviluppo chirurgico che ha dato i primi risultati, poi, consiste nella neurostimolazione delle cellule mediante l'impianto di elettrodi nel cervello. Ma da dove cominciare la terapia, levodopa o agonisti dopaminergici? L'incertezza permane, dicono gli esperti sul New England. Se, infatti, gli agonisti della dopamina riducono le complicazioni motorie, la loro azione è controbilanciata da una minor efficacia come agenti antiparkinsoniani e da un differente spettro di effetti avversi: sonnolenza, allucinazioni, arrestarsi del movimento. La valutazione della qualità di vita non aiuta nella scelta visto l'assenza di differenze sostanziali. Non a caso le linee guida dell'American Academy of Neurology considerano valide entrambe le alternative iniziali nella cura del Parkinson. Quanto alla sostituzione della dopamina a immediato rilascio con preparazioni a rilascio controllato, per diminuire i rischi di fluttuazioni motorie e discinesia, non esistono ancora certezze sui vantaggi effettivi. Gli studi in corso, conclude il New England, stanno esaminando gli effetti combinati di carbidopa, levodopa e entacapone, un inibitore delle catecol-o-metiltransferasi. I primi risultati sembrano promettenti.
Marco Malagutti
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