25 luglio 2007
Aggiornamenti e focus
Più tabacco meno Parkinson
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Per uscire dall'aneddotica, un folto gruppo di specialisti statunitensi ha raccolto tutti gli studi, che avessero registrato sufficienti dettagli circa l'uso del tabacco e i suoi effetti sul Parkinson, e ha raggruppato i dati, per poi analizzarli nel loro complesso. Sono stati presi in considerazione 8 studi caso-controllo e 3 studi di coorte che coprivano un arco di tempo di oltre 40 anni (1960-2004). Gli studi caso-controllo totalizzavano 2.328 malati di Parkinson e 4.113 soggetti sani, compatibili con i primi per età, sesso, etnia.
Gli studi di coorte hanno fornito i dati di 488 pazienti e 4.880 controlli.
A una prima macroscopica analisi si è confermata l'associazione inversa tra incidenza del Parkinson e fumo di sigaretta che, anzi, appare più marcata per i fumatori e meno per gli ex-fumatori; infatti, per chi smette di fumare l'azione protettiva del fumo decresce progressivamente all'aumentare degli anni trascorsi da quando si è smesso.
Non stupisce invece che la correlazione sia risultata più evidente negli studi di coorte rispetto a quelli caso-controllo, in quanto nei primi tipi di studio l'abitudine al tabacco viene rilevata più volte e prima dell'insorgere della malattia, perciò le informazioni sono molto accurate e la correlazione negativa risulta più netta. Gli studi coorte sono studi prospettici che, identificata una certa popolazione con determinate caratteristiche, la osservano nel tempo, per individuare la comparsa o meno di certi effetti; effetti concordati all'inizio della ricerca. Gli studi caso-controllo, invece, sono retrospettivi: quando inizia l'indagine la malattia è già presente in un certo numero di soggetti (i casi) e le informazioni sugli anni precedenti sono recuperate a posteriori, da archivi preesistenti, oppure somministrando ai partecipanti questionari con domande relative a eventi occorsi nel passato
Volendo esprimere la diminuzione del rischio d'incidenza della malattia come una funzione dose risposta, si può dire che il rischio relativo di ammalarsi decresce del 5-8% quando si fumano almeno 10 pacchetti di sigarette l'anno. Va sottolineato però che il numero medio di pacchetti/anno di sigarette consumati dipende sia dalla durata dell'abitudine sia dalla sua intensità (numero di sigarette al giorno).
L'analisi dei dati ha permesso di concludere che l'effetto dose-risposta del fumo è indipendente dal sesso e dal livello culturale dei soggetti coinvolti, e si evidenzia anche per usi diversi del tabacco: nei sottogruppi che fumavano regolarmente il sigaro o la pipa, meno in chi masticava tabacco, probabilmente a causa dell'esiguità del campione. Nella media di tutti gli studi, i pazienti hanno ricevuto la diagnosi di Parkinson tra i 60 e i 70 anni d'età, ma per il sottogruppo che si è ammalato dopo i 75 anni scompare qualsiasi correlazione con il fumo di sigaretta. È probabile quindi che l'azione del fumo di tabacco sia, in parte, diretta a ritardare l'insorgenza della malattia, piuttosto che a evitarla del tutto, nei soggetti predisposti.
Sono esclusi invece da questi risultati i soggetti di etnia afroamericana e ispanica, per i quali l'associazione inversa non è emersa.
Elisabetta Lucchesini
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Gli studi di coorte hanno fornito i dati di 488 pazienti e 4.880 controlli.
Associazione confermata
A una prima macroscopica analisi si è confermata l'associazione inversa tra incidenza del Parkinson e fumo di sigaretta che, anzi, appare più marcata per i fumatori e meno per gli ex-fumatori; infatti, per chi smette di fumare l'azione protettiva del fumo decresce progressivamente all'aumentare degli anni trascorsi da quando si è smesso.
Non stupisce invece che la correlazione sia risultata più evidente negli studi di coorte rispetto a quelli caso-controllo, in quanto nei primi tipi di studio l'abitudine al tabacco viene rilevata più volte e prima dell'insorgere della malattia, perciò le informazioni sono molto accurate e la correlazione negativa risulta più netta. Gli studi coorte sono studi prospettici che, identificata una certa popolazione con determinate caratteristiche, la osservano nel tempo, per individuare la comparsa o meno di certi effetti; effetti concordati all'inizio della ricerca. Gli studi caso-controllo, invece, sono retrospettivi: quando inizia l'indagine la malattia è già presente in un certo numero di soggetti (i casi) e le informazioni sugli anni precedenti sono recuperate a posteriori, da archivi preesistenti, oppure somministrando ai partecipanti questionari con domande relative a eventi occorsi nel passato
Insorgenza ritardata
Volendo esprimere la diminuzione del rischio d'incidenza della malattia come una funzione dose risposta, si può dire che il rischio relativo di ammalarsi decresce del 5-8% quando si fumano almeno 10 pacchetti di sigarette l'anno. Va sottolineato però che il numero medio di pacchetti/anno di sigarette consumati dipende sia dalla durata dell'abitudine sia dalla sua intensità (numero di sigarette al giorno).
L'analisi dei dati ha permesso di concludere che l'effetto dose-risposta del fumo è indipendente dal sesso e dal livello culturale dei soggetti coinvolti, e si evidenzia anche per usi diversi del tabacco: nei sottogruppi che fumavano regolarmente il sigaro o la pipa, meno in chi masticava tabacco, probabilmente a causa dell'esiguità del campione. Nella media di tutti gli studi, i pazienti hanno ricevuto la diagnosi di Parkinson tra i 60 e i 70 anni d'età, ma per il sottogruppo che si è ammalato dopo i 75 anni scompare qualsiasi correlazione con il fumo di sigaretta. È probabile quindi che l'azione del fumo di tabacco sia, in parte, diretta a ritardare l'insorgenza della malattia, piuttosto che a evitarla del tutto, nei soggetti predisposti.
Sono esclusi invece da questi risultati i soggetti di etnia afroamericana e ispanica, per i quali l'associazione inversa non è emersa.
Elisabetta Lucchesini
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