13 aprile 2007
Aggiornamenti e focus
Il secolo dell'anca
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La protesi dell’anca, oggi uno degli interventi più spesso eseguiti, ha un centinaio d’anni. Non proprio 100 giusti giusti ma quasi: infatti se si considerano i primi tentativi di rimediare chirurgicamente ai danni articolari dovuti soprattutto all’artrosi, si può risalire più indietro nel tempo, mentre se si considera il primo tentativo moderno si deve partire dal 1938, quando si ebbe per la prima volta l’impiego di una coppa metallica che andava a ricoprire la testa del femore danneggiata e, poco dopo nello stesso anno, la prima sostituzione radicale della testa del femore con una protesi, sempre metallica, a opera del chirurgo britannico P Wiles.
E prima? Prima, quando i dolori artrosici divenivano insopportabili, si procedeva all’artrodesi o fusione, cioè sostanzialmente al blocco dell’articolazione. Ai fini della riduzione del dolore l’intervento era senz’altro efficace, ma certo la mobilità e l’autonomia del paziente crollavano: oggi si direbbe che la qualità della vita era molto bassa.
Tecnicamente la protesi d’anca consiste nella sostituzione della parte prossimale del femore con un dispositivo che ne richiama la forma, in sostanza una sorta di stelo che reca una struttura sferica alla sua estremità. Struttura sferica che va impegnarsi nell’acetabolo, che ha una forma complementare. Nella protesizzazione, anche l’acetabolo viene dotato di una protesi, costituita da una coppetta che accoglie la testa sferica della protesi femorale. Come tutte le articolazioni, anche questa ha il delicato compito di reggere le forze che si esercitano lungo sull’osso e di consentire il movimento reciproco, in questo caso tra tronco e gamba. E il tutto richiede, ovviamente, la massima scorrevolezza. Ed è proprio questa che viene a mancare a causa dell’artrosi, malattia degenerativa che compromette le superfici articolari e altera la geometria dell’articolazione stessa. Di qui il dolore e la ridotta mobilità.
E’ chiaro che una protesi d’anca è qualcosa di complesso e delicato, a dispetto dell’apparenza rude, e i risultati attuali, con sopravvivenza della protesi superiore all’80% anche a 25 anni dall’intervento, è frutto di una lunga evoluzione. Questa evoluzione ha avuto un punto di svolta negli anni sessanta, come le protesi cementate di Charnley. Cementate significa che sia la protesi del femore, sia la sede nell’acetabolo vengono fissate, mediante un cemento acrilico, analogo a quello usato per le protesi dentarie. Un altro contributo fondamentale è stato l’uso del teflon ad alta densità per le superfici di attrito e poi aver sviluppato un sistema complessivo che sviluppa attriti molto bassi. Ma questo sistema non è il solo. Infatti sono state sviluppate anche protesi che non vengono cementate, ma inserite a forza nell’osso, nel canale midollare del femore, e nel caso della coppa destinata all’acetabolo, fissata anche con viti. Inoltre, la superficie dello stelo della protesi è trattata in modo da favorire l’integrazione con l’osso. Oggi sono le protesi non cementate a essere impiegate più frequentemente, anche se non esiste una chiara superiorità. Certamente l’applicazione del cemento richiede più tempo e manualità, ma questo è tutto.
Le difficoltà che questo intervento ha dovuto affrontare sono sostanzialmente due. La prima è il dolore, che in alcuni casi, soprattutto con certe protesi non cementate particolarmente lunghe, continuava a presentarsi sia pure in misura ridotta. La seconda è la perdita ossea, il riassorbimento, spesso indotta dalle microparticelle che si distaccano dal cemento (uno dei motivi per cui si sono sviluppate quelle non cementate). Al di là della dinamica, oggi sono comunque disponibili trattamenti farmacologici che impediscono il riassorbimento dell’osso, e sono plausibilmente al soluzione di almeno una parte dei casi in cui si verifica questo inconveniente. Un altro aspetto che può portare alla necessità di revisionare la protesi è il logoramento delle superfici di attrito, in particolare della coppa acetabolare. Qui sono state prospettate diverse soluzioni: uso di rivestimenti di polietilene a elevata densità o sottoposto a particolari trattamenti, ricorso a leghe metallo ceramiche, o a superfici metalliche. Ogni soluzione ha pro e contro, ma in media oggi questa difficoltà è decisamente ridotta.
Insomma un secolo speso bene, anche se è chiaro che non si può pensare che la protesi sia la soluzione di prima linea, soprattutto nei pazienti giovani, cioè al di sotto dei 50-55 anni di età. Finché c’è un funzionamento accettabile, naturale è meglio.
Maurizio Imperiali
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
E prima? Prima, quando i dolori artrosici divenivano insopportabili, si procedeva all’artrodesi o fusione, cioè sostanzialmente al blocco dell’articolazione. Ai fini della riduzione del dolore l’intervento era senz’altro efficace, ma certo la mobilità e l’autonomia del paziente crollavano: oggi si direbbe che la qualità della vita era molto bassa.
Questione di posizione e di attrito
Tecnicamente la protesi d’anca consiste nella sostituzione della parte prossimale del femore con un dispositivo che ne richiama la forma, in sostanza una sorta di stelo che reca una struttura sferica alla sua estremità. Struttura sferica che va impegnarsi nell’acetabolo, che ha una forma complementare. Nella protesizzazione, anche l’acetabolo viene dotato di una protesi, costituita da una coppetta che accoglie la testa sferica della protesi femorale. Come tutte le articolazioni, anche questa ha il delicato compito di reggere le forze che si esercitano lungo sull’osso e di consentire il movimento reciproco, in questo caso tra tronco e gamba. E il tutto richiede, ovviamente, la massima scorrevolezza. Ed è proprio questa che viene a mancare a causa dell’artrosi, malattia degenerativa che compromette le superfici articolari e altera la geometria dell’articolazione stessa. Di qui il dolore e la ridotta mobilità.
E’ chiaro che una protesi d’anca è qualcosa di complesso e delicato, a dispetto dell’apparenza rude, e i risultati attuali, con sopravvivenza della protesi superiore all’80% anche a 25 anni dall’intervento, è frutto di una lunga evoluzione. Questa evoluzione ha avuto un punto di svolta negli anni sessanta, come le protesi cementate di Charnley. Cementate significa che sia la protesi del femore, sia la sede nell’acetabolo vengono fissate, mediante un cemento acrilico, analogo a quello usato per le protesi dentarie. Un altro contributo fondamentale è stato l’uso del teflon ad alta densità per le superfici di attrito e poi aver sviluppato un sistema complessivo che sviluppa attriti molto bassi. Ma questo sistema non è il solo. Infatti sono state sviluppate anche protesi che non vengono cementate, ma inserite a forza nell’osso, nel canale midollare del femore, e nel caso della coppa destinata all’acetabolo, fissata anche con viti. Inoltre, la superficie dello stelo della protesi è trattata in modo da favorire l’integrazione con l’osso. Oggi sono le protesi non cementate a essere impiegate più frequentemente, anche se non esiste una chiara superiorità. Certamente l’applicazione del cemento richiede più tempo e manualità, ma questo è tutto.
I principali inconvenienti
Le difficoltà che questo intervento ha dovuto affrontare sono sostanzialmente due. La prima è il dolore, che in alcuni casi, soprattutto con certe protesi non cementate particolarmente lunghe, continuava a presentarsi sia pure in misura ridotta. La seconda è la perdita ossea, il riassorbimento, spesso indotta dalle microparticelle che si distaccano dal cemento (uno dei motivi per cui si sono sviluppate quelle non cementate). Al di là della dinamica, oggi sono comunque disponibili trattamenti farmacologici che impediscono il riassorbimento dell’osso, e sono plausibilmente al soluzione di almeno una parte dei casi in cui si verifica questo inconveniente. Un altro aspetto che può portare alla necessità di revisionare la protesi è il logoramento delle superfici di attrito, in particolare della coppa acetabolare. Qui sono state prospettate diverse soluzioni: uso di rivestimenti di polietilene a elevata densità o sottoposto a particolari trattamenti, ricorso a leghe metallo ceramiche, o a superfici metalliche. Ogni soluzione ha pro e contro, ma in media oggi questa difficoltà è decisamente ridotta.
Insomma un secolo speso bene, anche se è chiaro che non si può pensare che la protesi sia la soluzione di prima linea, soprattutto nei pazienti giovani, cioè al di sotto dei 50-55 anni di età. Finché c’è un funzionamento accettabile, naturale è meglio.
Maurizio Imperiali
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