29 febbraio 2008
Aggiornamenti e focus
Antidepressivi in seconda linea?
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Statisticamente significativa ma clinicamente marginale, così è stata valutata la differenza di efficacia tra i farmaci antidepressivi e il placebo nella revisione degli studi clinici controllati, che è stata pubblicata da Plos Medicine. Un'affermazione decisamente non priva di peso che ha già sollevato risposte favorevoli e contrarie di psicologi e psichiatri.
Gli autori, coordinati da Irving Kirsch dell'Università di Hull, hanno raccolto tutti gli studi clinici di efficacia, pubblicati e non, richiedendoli direttamente alla Food and Drug Administration (FDA). Studi che sono stati realizzati e presentati per l'approvazione alla commercializzazione di farmaci come fluoxetina, venlafaxina, nefazodone, paroxetina, sertralina e citalopram, vale a dire i sei antidepressivi più prescritti, approvati tra il 1987 e il 1999. Ogni singolo studio ha fornito informazioni sull'efficacia della molecola contro un placebo, ma ulteriori informazioni si possono trarre dal confronto incrociato di tutti gli studi, vale a dire con le metanalisi. Kirsch e i suoi colleghi hanno messo in discussione le conclusioni finali che sono state portate a sostegno dell'uso clinico che si fa di queste molecole.
In ognuno dei 47 studi selezionati la gravità della depressione è stata valutata con la Scala di Hamilton (HRSD) specifica per questo disturbo che, con un questionario di circa 20 domande, dava un punteggio in grado di misurare la condizione di ogni paziente. Questo, ovviamente, sia nel gruppo trattato con il farmaco sia in quello che era stato avviato a un trattamento placebo. Considerando i punteggi medi di HRSD ottenuti nei diversi gruppi e nei diversi studi, 9,60 nei gruppi in trattamento farmacologico e 7,80 nel gruppo placebo, la differenza che si poteva osservare si attestava su un valore di 1,80, statisticamente significativo, quindi. Tuttavia lo stesso NICE, cioè il National Institute for Health and Clinical Excellence, organo consulente del Servizio sanitario inglese con il compito di indicare la miglior pratica clinica, ha fornito come riferimento di significatività clinica, quindi motivante all'uso nella pratica clinica, una differenza di almeno 3 punti tra il punteggio HRSD ottenuto con il farmaco e quello ottenuto con il placebo. Trattandosi di valori medi, però, il rischio è di livellare troppo eventuali effetti benefici ottenuti nei diversi gruppi di pazienti. Infatti, andando a distinguere in base alla severità dei sintomi all'inizio dello studio, gli autori hanno appurato che, in effetti, nei casi più gravi l'efficacia era clinicamente significativa. Il resto dei casi, da lievi a moderati, secondo Kirsch non incontrava i criteri per giustificare la prescrizione di antidepressivi, o quanto meno non ci sono sufficienti evidenze a sostegno, a meno che trattamenti alternativi (psicoterapia, per esempio) risultino fallimentari nell'offrire benefici. Un'ulteriore considerazione proposta dagli autori nasce dal confronto con altri farmaci controllati contro placebo: l'effetto placebo contro il dolore, per esempio, ottiene il 50% della risposta che si può ottenere con un antidolorifico. Nel caso degli antidepressivi l'effetto placebo è eccezionalmente grande in quanto ottiene più dell'80% dei risultati positivi raggiunti con il farmaco, anche nei casi di depressione moderata e grave, per poi diminuire con la severità dei sintomi.
Reazioni avverse e non
La prima replica alla pubblicazione dello studio è stata sollevata dall'Associazione di industrie farmaceutiche inglese: "Si tratta di medicinali che sono stati approvati da agenzie regolatorie del farmaco in tutto il mondo, che si sono basate su dati clinici provenienti da diversi studi che hanno dimostrato che funzionano meglio del placebo" afferma il portavoce Richard Tiner.In difesa degli antidepressivi si schiera anche Rosario Sorrentino, neurologo e direttore dell'Istituto di ricerca e cura attacchi di panico della Clinica Pio XI di Roma: " Siamo passati dalla demonizzazione del farmaco al definirlo acqua fresca. Ma i medicinali sono fondamentali per la cura di patologie come depressione e gli stessi attacchi di panico. Lo sanno molto bene i pazienti che si sottopongono inutilmente alla psicoanalisi senza fine".
Sono invece sopravvalutati e sovrautilizzati secondo Silvio Garattini, farmacologo e direttore dell'Istituto Mario Negri di Milano: "Stiamo dicendo da molto tempo che la maggior parte degli eventi drammatici, che possono deprimere una persona, troppo spesso vengono trattati con un farmaco. Se dopo un lutto o un licenziamento ci si sente depressi, subito ci vengono prescritti dei farmaci. Un conto è la depressione vera, un altro eventi che abbattono, ma dai quali si può uscire da soli". Secondo Garattini, quindi esiste "un consumo enorme di antidepressivi, impiegati in modo improprio". C'è, inoltre, il problema dell'efficacia. "Bisogna tener conto del fatto che, fra i depressi trattati con farmaci, il 35% - dice Garattini - ha una risposta significativa, il 30% una paragonabile al placebo, mentre gli altri non hanno benefici dagli anti-depressivi". I due fronti si direbbero ben schierati, a questo punto forse ad armi un po' più pari, da augurarsi che i pazienti ne possano trovare un maggior giovamento.
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Molecole approvate sotto esame
Gli autori, coordinati da Irving Kirsch dell'Università di Hull, hanno raccolto tutti gli studi clinici di efficacia, pubblicati e non, richiedendoli direttamente alla Food and Drug Administration (FDA). Studi che sono stati realizzati e presentati per l'approvazione alla commercializzazione di farmaci come fluoxetina, venlafaxina, nefazodone, paroxetina, sertralina e citalopram, vale a dire i sei antidepressivi più prescritti, approvati tra il 1987 e il 1999. Ogni singolo studio ha fornito informazioni sull'efficacia della molecola contro un placebo, ma ulteriori informazioni si possono trarre dal confronto incrociato di tutti gli studi, vale a dire con le metanalisi. Kirsch e i suoi colleghi hanno messo in discussione le conclusioni finali che sono state portate a sostegno dell'uso clinico che si fa di queste molecole.
La gravità fa la differenza
In ognuno dei 47 studi selezionati la gravità della depressione è stata valutata con la Scala di Hamilton (HRSD) specifica per questo disturbo che, con un questionario di circa 20 domande, dava un punteggio in grado di misurare la condizione di ogni paziente. Questo, ovviamente, sia nel gruppo trattato con il farmaco sia in quello che era stato avviato a un trattamento placebo. Considerando i punteggi medi di HRSD ottenuti nei diversi gruppi e nei diversi studi, 9,60 nei gruppi in trattamento farmacologico e 7,80 nel gruppo placebo, la differenza che si poteva osservare si attestava su un valore di 1,80, statisticamente significativo, quindi. Tuttavia lo stesso NICE, cioè il National Institute for Health and Clinical Excellence, organo consulente del Servizio sanitario inglese con il compito di indicare la miglior pratica clinica, ha fornito come riferimento di significatività clinica, quindi motivante all'uso nella pratica clinica, una differenza di almeno 3 punti tra il punteggio HRSD ottenuto con il farmaco e quello ottenuto con il placebo. Trattandosi di valori medi, però, il rischio è di livellare troppo eventuali effetti benefici ottenuti nei diversi gruppi di pazienti. Infatti, andando a distinguere in base alla severità dei sintomi all'inizio dello studio, gli autori hanno appurato che, in effetti, nei casi più gravi l'efficacia era clinicamente significativa. Il resto dei casi, da lievi a moderati, secondo Kirsch non incontrava i criteri per giustificare la prescrizione di antidepressivi, o quanto meno non ci sono sufficienti evidenze a sostegno, a meno che trattamenti alternativi (psicoterapia, per esempio) risultino fallimentari nell'offrire benefici. Un'ulteriore considerazione proposta dagli autori nasce dal confronto con altri farmaci controllati contro placebo: l'effetto placebo contro il dolore, per esempio, ottiene il 50% della risposta che si può ottenere con un antidolorifico. Nel caso degli antidepressivi l'effetto placebo è eccezionalmente grande in quanto ottiene più dell'80% dei risultati positivi raggiunti con il farmaco, anche nei casi di depressione moderata e grave, per poi diminuire con la severità dei sintomi.
Reazioni avverse e non
La prima replica alla pubblicazione dello studio è stata sollevata dall'Associazione di industrie farmaceutiche inglese: "Si tratta di medicinali che sono stati approvati da agenzie regolatorie del farmaco in tutto il mondo, che si sono basate su dati clinici provenienti da diversi studi che hanno dimostrato che funzionano meglio del placebo" afferma il portavoce Richard Tiner.In difesa degli antidepressivi si schiera anche Rosario Sorrentino, neurologo e direttore dell'Istituto di ricerca e cura attacchi di panico della Clinica Pio XI di Roma: " Siamo passati dalla demonizzazione del farmaco al definirlo acqua fresca. Ma i medicinali sono fondamentali per la cura di patologie come depressione e gli stessi attacchi di panico. Lo sanno molto bene i pazienti che si sottopongono inutilmente alla psicoanalisi senza fine".
Sono invece sopravvalutati e sovrautilizzati secondo Silvio Garattini, farmacologo e direttore dell'Istituto Mario Negri di Milano: "Stiamo dicendo da molto tempo che la maggior parte degli eventi drammatici, che possono deprimere una persona, troppo spesso vengono trattati con un farmaco. Se dopo un lutto o un licenziamento ci si sente depressi, subito ci vengono prescritti dei farmaci. Un conto è la depressione vera, un altro eventi che abbattono, ma dai quali si può uscire da soli". Secondo Garattini, quindi esiste "un consumo enorme di antidepressivi, impiegati in modo improprio". C'è, inoltre, il problema dell'efficacia. "Bisogna tener conto del fatto che, fra i depressi trattati con farmaci, il 35% - dice Garattini - ha una risposta significativa, il 30% una paragonabile al placebo, mentre gli altri non hanno benefici dagli anti-depressivi". I due fronti si direbbero ben schierati, a questo punto forse ad armi un po' più pari, da augurarsi che i pazienti ne possano trovare un maggior giovamento.
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