24 gennaio 2003
Aggiornamenti e focus
Terapia a 35mm
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Uno studioso del tema come lo psichiatra Ignazio Senatore si è interrogato a lungo sulle potenzialità terapeutiche del cinema. Egli ha delineato le possibilità che esso offre di fantasticare, così come di compiere un lavoro di anamnesi e di autoanalisi, ma il suo esito in termini terapeutici resta ancora da dimostrare scientificamente.
Se si considera, infatti, l'ortodossia analitica, solo la relazione terapeutica è in grado di "curare", ma se ci si focalizza sugli spunti di riflessione su se stessi e la propria vita che un'opera cinematografica può fornire, si possono individuare notevoli potenzialità.
Un'ampia parte della produzione cinematografica e della letteratura ad essa riferita, inoltre, ha affrontato i temi della malattia mentale e della relazione paziente-terapeuta, secondo l'orientamento vigente in quel determinato periodo.
La produzione cinematografica è anche il frutto della rappresentazione collettiva e, in questo senso, risente del contesto socioculturale della specifica epoca in cui viene prodotta. Per questo, nel tempo, diverse sono state le modalità di rappresentazione dei disturbi psichiatrici e psicologici e del terapeuta. Assente nei primi film muti, la figura del curante si può riassumere con 3 stereotipi, che hanno occupato la scena dai primi anni '30 alla fine degli anni '50:
I terapeuti di sesso femminile, invece, sono assai infrequenti e, le rare volte in cui appaiono, abbandonano la professione nel momento in cui si sposano, per dedicarsi ad attività giudicate più consone, quali l'essere moglie e madre. Negli ultimi anni, tuttavia, i mutamenti socioculturali sono riusciti a scalfire quest'immagine maschilista, rappresentando le donne in modo più aperto, consapevole del loro ruolo professionale nel mondo.
In seguito ai successi terapeutici che si sono verificati durante e al termine della seconda guerra mondiale, si registra un'ampia diffusione di film a sostegno della psicoterapia, che raggiunge il suo apice negli anni '60. La situazione si capovolge, invece, durante e al termine della guerra del Viet Nam, nel corso degli anni '70 e '80. Nel corso degli anni '90, si passa ad una raffigurazione più equilibrata dei terapeuti e della loro attività. Permangono, tuttavia, alcune semplificazioni che rischiano di perpetrare i pregiudizi degli spettatori e gli stereotipi della cinematografia.
La visione di un film modifica lo stato di coscienza di una persona: lo spettatore viene proiettato in una dimensione spazio-temporale in cui esiste solo la storia rappresentata sullo schermo, che annulla, almeno temporaneamente, la realtà circostante. Questa nuova dimensione è in grado di suscitare emozioni, indurre alla riflessione su se stessi e la propria esistenza, inviare spunti per un dialogo, che produrrà mutamenti in coloro che ne sono coinvolti.
Esistono interessanti esperienze di applicazione della visione e del dibattito cinematografico in tal senso. Ad esempio, il dottor Marcolongo ha introdotto la tecnica da lui definita "moviemotions".
In un primo momento i partecipanti assistono, a casa propria, alla proiezione di un film, precedentemente concordato, su videocassetta.
In seguito la proiezione viene ripetuta, alla presenza del terapeuta, con gruppi di 20-25 persone e viene interrotta in concomitanza con le scene più emotivamente significative, al fine di discutere quanto visto. Vengono analizzati tutti quegli elementi che costituiscono la realtà scenica, quali: la storia, l'inquadratura, il dialogo, l'espressione dei volti, la postura corporea degli attori. Non si tratta di critica cinematografica, ma del tentativo di analisi e discussione della rappresentazione di una realtà 'altra' da quella vissuta quotidianamente, in prima persona, al fine di elaborare i vissuti di gruppo. Marcolongo riporta risultati positivi in termini di aumento della capacità di cogliere e decifrare le emozioni da parte dei presenti.
In conclusione, però, sono necessarie ulteriori ricerche volte ad individuare se, come e in che misura si verifica il processo terapeutico. Le ricerche attuali, infatti, vanno nella direzione di una integrazione di tale percorso con quello di una psicoterapia vera e propria, più che di una sostituzione d'essa.
Anna Fata
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Se si considera, infatti, l'ortodossia analitica, solo la relazione terapeutica è in grado di "curare", ma se ci si focalizza sugli spunti di riflessione su se stessi e la propria vita che un'opera cinematografica può fornire, si possono individuare notevoli potenzialità.
Un'ampia parte della produzione cinematografica e della letteratura ad essa riferita, inoltre, ha affrontato i temi della malattia mentale e della relazione paziente-terapeuta, secondo l'orientamento vigente in quel determinato periodo.
Gli attori
La produzione cinematografica è anche il frutto della rappresentazione collettiva e, in questo senso, risente del contesto socioculturale della specifica epoca in cui viene prodotta. Per questo, nel tempo, diverse sono state le modalità di rappresentazione dei disturbi psichiatrici e psicologici e del terapeuta. Assente nei primi film muti, la figura del curante si può riassumere con 3 stereotipi, che hanno occupato la scena dai primi anni '30 alla fine degli anni '50:
- il dottor Dippy fa il suo primo esordio in Dr. Dippy's Sanitarium (1906), più debole dei suoi pazienti è un personaggio ignorante, emette sentenze e rappresenta la caricatura di Freud;
- il dottor Evil è la versione psichiatrica del "pazzo", lo scienziato malvagio. Uno psicopatico che prescrive farmaci o si avvale dell'ipnosi per indurre i pazienti a compiere atti malvagi, oppure che esprime le sue perversioni, compiendo atti illeciti al di fuori del contesto lavorativo;
- il dottor Wonderful rappresenta il buon genitore, altruista, sempre disponibile, totalmente dedito ai suoi pazienti, al punto da trascurare le altre sfere della sua vita, affetti compresi.
I terapeuti di sesso femminile, invece, sono assai infrequenti e, le rare volte in cui appaiono, abbandonano la professione nel momento in cui si sposano, per dedicarsi ad attività giudicate più consone, quali l'essere moglie e madre. Negli ultimi anni, tuttavia, i mutamenti socioculturali sono riusciti a scalfire quest'immagine maschilista, rappresentando le donne in modo più aperto, consapevole del loro ruolo professionale nel mondo.
In seguito ai successi terapeutici che si sono verificati durante e al termine della seconda guerra mondiale, si registra un'ampia diffusione di film a sostegno della psicoterapia, che raggiunge il suo apice negli anni '60. La situazione si capovolge, invece, durante e al termine della guerra del Viet Nam, nel corso degli anni '70 e '80. Nel corso degli anni '90, si passa ad una raffigurazione più equilibrata dei terapeuti e della loro attività. Permangono, tuttavia, alcune semplificazioni che rischiano di perpetrare i pregiudizi degli spettatori e gli stereotipi della cinematografia.
E la terapia ..?
La visione di un film modifica lo stato di coscienza di una persona: lo spettatore viene proiettato in una dimensione spazio-temporale in cui esiste solo la storia rappresentata sullo schermo, che annulla, almeno temporaneamente, la realtà circostante. Questa nuova dimensione è in grado di suscitare emozioni, indurre alla riflessione su se stessi e la propria esistenza, inviare spunti per un dialogo, che produrrà mutamenti in coloro che ne sono coinvolti.
Esistono interessanti esperienze di applicazione della visione e del dibattito cinematografico in tal senso. Ad esempio, il dottor Marcolongo ha introdotto la tecnica da lui definita "moviemotions".
In un primo momento i partecipanti assistono, a casa propria, alla proiezione di un film, precedentemente concordato, su videocassetta.
In seguito la proiezione viene ripetuta, alla presenza del terapeuta, con gruppi di 20-25 persone e viene interrotta in concomitanza con le scene più emotivamente significative, al fine di discutere quanto visto. Vengono analizzati tutti quegli elementi che costituiscono la realtà scenica, quali: la storia, l'inquadratura, il dialogo, l'espressione dei volti, la postura corporea degli attori. Non si tratta di critica cinematografica, ma del tentativo di analisi e discussione della rappresentazione di una realtà 'altra' da quella vissuta quotidianamente, in prima persona, al fine di elaborare i vissuti di gruppo. Marcolongo riporta risultati positivi in termini di aumento della capacità di cogliere e decifrare le emozioni da parte dei presenti.
In conclusione, però, sono necessarie ulteriori ricerche volte ad individuare se, come e in che misura si verifica il processo terapeutico. Le ricerche attuali, infatti, vanno nella direzione di una integrazione di tale percorso con quello di una psicoterapia vera e propria, più che di una sostituzione d'essa.
Anna Fata
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