E' sempre tortura

14 marzo 2007
Aggiornamenti e focus

E' sempre tortura



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"Fra l'ottobre e il dicembre 2003 nella struttura di detenzione di Abu Ghraib furono inflitti a diversi detenuti numerosi abusi sadici, clamorosi e sfacciatamente criminali. Inoltre diversi detenuti hanno descritto i seguenti abusi, che date le circostanze, giudico credibili in base alla chiarezza delle affermazioni e le prove addotte a sostegno dei testimoni:"
  • Rottura di lampade chimiche, il cui contenuto fosforico veniva versato sui prigionieri
  • Minacce con pistole calibro 9 mm
  • Getti d'acqua fredda su detenuti nudi
  • Percosse con manici di scopa o con una sedia
  • Minacce di stupro ai danni di prigionieri maschi ecc...
L'agghiacciante catalogo non finisce così ed è soltanto uno stralcio del rapporto sulle torture e gli abusi commessi da militari statunitensi nei confronti di prigionieri iracheni nel carcere di Abu Ghraib. Possibile? Purtroppo si e non è un caso isolato visto che come Abu Ghraib c'è stato Guantanamo e poi l'Afghanistan. Palesi e inaccettabili violazioni della Convenzione di Ginevra, sul trattamento dei prigionieri. Un recente rapporto dell'associazione statunitense Physicians for Human Rights sostiene come "la tortura psicologica era sistematica e centrale negli interrogatori dei detenuti in Iraq, Afghanistan e Guantanamo". Un documento che evidenzia come le torture psicologiche siano state il fulcro del trattamento e degli interrogatori dei detenuti. La tortura, infatti, non è solo fisica benché i governi di paesi che si dicono civili come gli Stati Uniti rivendichino quella psicologica come una sorta di tortura light. E non contenti rivendicano anche una distinzione tra tortura vera e propria e trattamento crudele, inumano e degradante, la tortura psicologica appunto. Invece come si può intuire la differenza non c'è, e a confermarlo arriva uno studio degli Archives of General Psychiatry, secondo il quale la tortura è sempre tortura e comunque sia è intollerabile.

Lo studio britannico


La premessa dello studio si sofferma sul tentativo di operare sottili distinzioni tra la tortura fisica vera e propria e quella mentale. Sulla base di queste distinzioni una serie di pratiche molto diffuse in questi interrogatori, dal bendaggio degli occhi all'incappucciamento, dal denudamento forzato all'isolamento, dalle pose forzate umilianti alle privazioni, non rappresenterebbero tortura. La sofferenza mentale, infatti, avrebbe bisogno di lungo tempo per essere designata in modo certo. Un assunto assai discutibile, soprattutto sul piano dei diritti umani. E nessuno studio si è mai occupato di questi temi, anche per l'oggettiva difficoltà a condurre ricerche in questo settore. Ci ha pensato un gruppo di medici britannici esaminando una serie di sopravvissuti alla guerra nella ex-Yugoslavia, 279 dei quali con un passato di torture. Il tutto usando una scala oggettiva di valutazione del dolore e ottenendo informazioni sul grado di stress percepito e sulla perdita di controllo associata a 46 eventi stressogeni. L'ipotesi da verificare è che il dolore percepito e l'imprevedibilità degli agenti stressogeni pesino di più che l'effettiva esposizione sul successivo stress post traumatico e sulla depressione. I 279 sopravvissuti (uomini l'86% con età media 40 anni) sono stati intervistati su 54 cause di shock emozionale legato alla guerra e su 46 forme di tortura alle quali potevano essere stati sottoposti. Si è visto così che problemi psicologici e depressioni sono frequenti e duraturi sia nei soggetti che hanno subito torture fisiche sia in coloro che hanno subito torture psicologiche. Le "tecniche alternative" usate dagli americani e basate sulla completa sottomissione psicologica sarebbero così ugualmente deleterie. Il concetto di tortura andrebbe dunque meglio definito a livello internazionale, a partire da una valutazione scientifica dei problemi psicologici e psichiatrici e non solo di quelli fisici. In questo modo si evita di lasciare al presidente americano "l'onere" di decidere quali metodi di interrogatorio siano compatibili con la Convenzione di Ginevra.

Marco Malagutti



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