03 febbraio 2006
Aggiornamenti e focus
Fatica cronica, c'è molto da capire
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Una stanchezza cronica persistente per almeno sei mesi che non è alleviata dal riposo, che si esacerba con piccoli sforzi, e che provoca una sostanziale riduzione dei livelli precedenti delle attività occupazionali, sociali o personali. Cosi i CDC statunitensi hanno definito in modo ufficiale la Sindrome da fatica cronica. Una definizione valida, a condizione che vengano escluse tutte le condizioni mediche che possono giustificare i sintomi del paziente, per esempio ipotiroidismo, epatite B o C cronica, tumori, depressione maggiore, schizofrenia, demenza, anoressia nervosa, abuso di sostanze alcoliche e obesità. Una patologia complessa e spesso difficile da comprendere che, secondo i dati più recenti, riguarda, però, 200-300.000 italiani, in maggioranza giovani e donne sui 35-40 anni. Eppure l'interesse per la malattia è carente, nonostante l'alto numero di malati, al punto che la sindrome non è ancora ufficialmente riconosciuta né inserita tra le malattie invalidanti. Sull'argomento sono, comunque, in corso numerosi studi, finalizzati a comprendere le alterazioni immunologiche e cerebrali nei pazienti con fatica cronica, a valutare un eventuale legame con i tumori maligni nonché a sviluppare nuovi farmaci. Una review, pubblicata su Lancet, fa il punto della situazione e delinea gli scenari futuri della ricerca.
Di questa sindrome, premettono i ricercatori, si parla da quasi un secolo, ma l'interesse è aumentato considerevolmente nei recenti anni '80. E' in quegli anni che si comincia a parlare di encefalomielite mialgica, una patologia di cui la fatica cronica è il sintomo prevalente. Alla comparsa della patologia molti i paragoni, e molte le ipotesi, ma nell'assenza di una causa riconoscibile, la malattia viene inquadrata come disturbo psichiatrico. Però, gli aspetti organici e quelli funzionali sono tra loro dicotomici, ossia non coincidono, e addirittura per molti la malattia non esiste neanche. Molti gli aspetti in discussione: dalla definizione della malattia, alla sua diagnosi, alla sua patofisiologia fino alla necessità di investigare di più e più a fondo sulle cause somatiche o sull'efficacia della terapia cognitivo comportamentale. Di tutti questi aspetti si occupa la review della rivista britannica, che approfondisce anche aspetti inerenti l'epidemiologia, le manifestazioni cliniche e la gestione terapeutica della sindrome. Ma l'aspetto più interessante riguarda gli studi futuri. Quali sono le ipotesi più sondate? L'aspetto sorprendente, precisano gli autori, è che si va riaffermando il modello psicologico. Si rafforza, cioè, l'ipotesi che la malattia abbia un'origine psichiatrica e somatica, ma questo non esclude aspetti neurobiologici. Due le strategie che la ricerca patofisiologica dovrebbe seguire. La prima consiste nel distinguere la sindrome da fatica cronica da altre malattie: disturbi neurologici come la sclerosi multipla, tumori o malattie infiammatorie croniche, come l'artrite reumatoide che possono presentare caratteristiche simili. L'altra strategia consiste nell'indagare sulle similitudini con altre sindromi somatiche. L'obiettivo è di identificare cosa non funzioni nell'azione molecolare a livello del sistema nervoso centrale. Ci sono, infatti, modelli nei quali l'alterazione di meccanismi omeostatici sembra alla base della deregolazione che si manifesta nelle sindromi somatiche. Lo stress, per esempio, se molto accentuato aumenta la vulnerabilità e conseguenti risposte psicobiologiche. Ma questi nuovi modelli di studio insieme al potenziamento della terapia cognitivo comportamentale e a nuovi trattamenti "targetizzati" sui singoli pazienti, possono poco se non si potenziano gli studi sulla popolazione generale. Si tratta di un disturbo poco stabile e condizionato dalla fluttuazione dei sintomi, è necessario, perciò, concludono i ricercatori, monitorare pazienti con la sindrome per parecchi anni in modo da chiarire lo schema di cura e di guarigione.
Marco Malagutti
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Il punto della situazione
Di questa sindrome, premettono i ricercatori, si parla da quasi un secolo, ma l'interesse è aumentato considerevolmente nei recenti anni '80. E' in quegli anni che si comincia a parlare di encefalomielite mialgica, una patologia di cui la fatica cronica è il sintomo prevalente. Alla comparsa della patologia molti i paragoni, e molte le ipotesi, ma nell'assenza di una causa riconoscibile, la malattia viene inquadrata come disturbo psichiatrico. Però, gli aspetti organici e quelli funzionali sono tra loro dicotomici, ossia non coincidono, e addirittura per molti la malattia non esiste neanche. Molti gli aspetti in discussione: dalla definizione della malattia, alla sua diagnosi, alla sua patofisiologia fino alla necessità di investigare di più e più a fondo sulle cause somatiche o sull'efficacia della terapia cognitivo comportamentale. Di tutti questi aspetti si occupa la review della rivista britannica, che approfondisce anche aspetti inerenti l'epidemiologia, le manifestazioni cliniche e la gestione terapeutica della sindrome. Ma l'aspetto più interessante riguarda gli studi futuri. Quali sono le ipotesi più sondate? L'aspetto sorprendente, precisano gli autori, è che si va riaffermando il modello psicologico. Si rafforza, cioè, l'ipotesi che la malattia abbia un'origine psichiatrica e somatica, ma questo non esclude aspetti neurobiologici. Due le strategie che la ricerca patofisiologica dovrebbe seguire. La prima consiste nel distinguere la sindrome da fatica cronica da altre malattie: disturbi neurologici come la sclerosi multipla, tumori o malattie infiammatorie croniche, come l'artrite reumatoide che possono presentare caratteristiche simili. L'altra strategia consiste nell'indagare sulle similitudini con altre sindromi somatiche. L'obiettivo è di identificare cosa non funzioni nell'azione molecolare a livello del sistema nervoso centrale. Ci sono, infatti, modelli nei quali l'alterazione di meccanismi omeostatici sembra alla base della deregolazione che si manifesta nelle sindromi somatiche. Lo stress, per esempio, se molto accentuato aumenta la vulnerabilità e conseguenti risposte psicobiologiche. Ma questi nuovi modelli di studio insieme al potenziamento della terapia cognitivo comportamentale e a nuovi trattamenti "targetizzati" sui singoli pazienti, possono poco se non si potenziano gli studi sulla popolazione generale. Si tratta di un disturbo poco stabile e condizionato dalla fluttuazione dei sintomi, è necessario, perciò, concludono i ricercatori, monitorare pazienti con la sindrome per parecchi anni in modo da chiarire lo schema di cura e di guarigione.
Marco Malagutti
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