Tutti nella stessa arca

13 gennaio 2006
Aggiornamenti e focus

Tutti nella stessa arca



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Molte delle malattie infettive che oggi costituiscono una sfida per la medicina hanno avuto origine dagli animali. O meglio, si sono manifestate prima in questa o quella specie animale. Ovviamente il pensiero va subito alla "malattia della mucca pazza" ma, anche se molti lo avranno dimenticato, anche l'HIV e l'AIDS sono stati, prima che dell'uomo, malattie delle scimmie. Si può risalire anche più indietro (si ritiene infatti cher il coronavirus umano OC43 sia stato "ereditato" dai bovini nel XIX secolo) e ovviamente si può andare avanti, fino alla SARS, che si deve a un altro coronavirus, probabilmente dono dei pipistrelli. Tecnicamente queste malattie che derivano dagli animali sono dette zoonosi e, come spiega un articolo del British Medical Journal, sono particolarmente insidiose per diversi motivi. Innanzitutto sono difficili da trattare, l'esperienza lo insegna, poi hanno costi di trattamento troppo elevati per i paesi meno ricchi (l'epidemia di AIDS in Africa è un esempio più che sufficiente), possono diffondersi con una rapidità notevolissima (gli animali viaggiano come le merci in genere, cioè dovunque), una volta che il virus o il batterio hanno "imparato" a trasmettersi da uomo a uomo è difficilissimo eradicarli, (perché il loro "serbatoio" è immenso: gli uomini e gli animali); infine, ma non è cosa da poco, inducono danni economici gravissimi ai paesi colpiti e generano un allarme pubblico fortissimo (a volte a proposito, a volte no).

Virus apparentati


Perché un virus possa infettare, oltre a quella che lo ospita, anche un'altra specie, uomo compreso, sono necessari adattamenti (mutazioni) a volte semplici a volte più complessi. Nel caso dei virus influenzali A è bastata la mutazione di una proteina di membrana, mentre per altre malattie il cambiamento non è mai avvenuto. Visti i precedenti, sarebbe un formidabile vantaggio poter individuare in anticipo le malattie dell'animale passibili di colpire anche l'uomo, così da concentrare le attenzioni e le misure necessarie prima che scatti l'allarme. Purtroppo non è così, nel senso che non esiste una "ricetta" semplice, anche se alcuni elementi di giudizio ci sono. Per cominciare, se il virus animale appartiene a una famiglia che comprende anche virus umani (ancora una volta, il coronavirus è un buon esempio), oppure quando altri virus della famiglia hanno mostrato una certa facilità a produrre mutazioni che consentono il salto da una specie all'altra. Un altro indizio di potenziale pericolosità è dato dal fatto che il virus animale possa essere coltivato in laboratorio nelle cellule umane. Poi, passando alle caratteristiche dell'ospite, si deve considerare se il virus non si "aggrappi", per entrare nelle cellule dell'animale, a recettori presenti anche in quelle umane, oppure che il virus si adatti alla temperatura corporea dell'uomo. Anche così, però, il campo non risulta molto ristretto se si parla di prevenzione, a meno che non si sia di fronte a un'epidemia animale conclamata.

Nell'anamnesi anche il contatto con animali


Ci sono casi, peraltro, in cui queste condizioni coesistono ma la situazione non può essere considerata per ora allarmante. E' il caso, per esempio, dell'epatite E porcina. Effettivamente esiste un'epatite E umana, anche se caratteristica di aree particolari, per esempio il Sudest asiatico. Però in Gran Bretagna, dove l'epatite E porcina è abbastanza diffusa, ci sono stati pochi casi di contagio tra gli umani, così come in altri paesi, e la trasmissione non è stata documentata: si sa soltanto che l'epatite E, senza storie di viaggi all'estero, è più frequente tra veterinari e addetti agli allevamenti. In questo caso, si legge in un altro articolo della stessa rivista, sarebbe il caso di aumentare la sorveglianza sui lavoratori esposti e, contemporaneamente, di monitorare tutti i casi di epatite non A, non B e non C che si presentano sul territorio. Per inciso, l'epatite E non è una malattia cronica e, con l'eccezione delle donne gravide, nelle quali può assumere una forma fulminante, si risolve da sé.
In effetti, la sorveglianza di chi lavora a contatto con gli animali (da compagnia o da alimentazione poco cambia) è la chiave per il controllo di potenziali zoonosi. D'altra parte, e questo è un monito che riguarda tutti i medici, prima di definire una malattia "idiopatica ", cioè senza una causa precisa, è bene indagare anche se vi sono contatti abituali tra il paziente e qualche animale. Oggi la gran parte della popolazione vive in ambiente urbano, è vero, ma anche se meno visibili gli animali restano comunque tra noi. A cominciare, purtroppo, dalle zanzare.

Maurizio Imperiali



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