Il rischio è il rischio

25 gennaio 2008
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Il rischio è il rischio



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"La pubblicità alla malattia, insieme con quella dei farmaci, ha un impatto enorme sulla domanda d'interventi, perché i medici hanno un ruolo solo parziale nel decidere gli oggetti di attenzione. Che la domanda venga quindi stimolata dalla disponibilità di farmaci fa riflettere sul modo in cui la patologia viene presentata ai medici e al pubblico, e su che cosa viene considerato di norma efficace e praticabile". Lo scrive Massimo Tombesi nel libro Prevenzione nella pratica clinica ed è la teoria anche di Ray Moynihan, giornalista noto per le sue campagne contro l'industria farmaceutica e il suo strapotere, secondo il quale "Associazioni di consumatori e industria si sono alleati per "convincere" una generazione di donne in salute che stava correndo il rischio di rompersi un osso e che la sua vita era messa in pericolo da quel "ladro silenzioso" che è l'osteoporosi". Si tratta, diceva Moynihan in un suo editoriale, di promuovere nuove malattie e, una volta consolidate, i rimedi necessari a curarle. Tra queste l'osteoporosi, ossia la naturale riduzione della massa ossea che sopraggiunge con l'invecchiamento, per la quale si propongono trattamenti preventivi a lungo termine per ridurre il rischio di successive fratture. E' la cosiddetta pre-osteoporosi o osteopenia, un tipico esempio, secondo l'editorialista del Bmj, di "disease mongering", ossia malattia fittizia. A ribadire questo concetto un'analisi sempre apparsa sulla rivista britannica, secondo la quale si sta cercando di trasformare in malattia quello che in realtà non lo è. Farlo è semplice, basta prendere dei trial e valorizzare solo gli aspetti favorevoli ai propri scopi.

Una condizione controversa


L'osteoporosi, del resto, è una condizione controversa. Da una parte un'alleanza globale formata da aziende farmaceutiche, medici e gruppi di pazienti, che ne parlano come di una epidemia silente ma mortale, portatrice di sventura a decine di milioni di donne in età postmenopausale. Dall'altra parte i detrattori, secondo i quali si tratta di una non-malattia, un semplice fattore di rischio trasformato in malattia allo scopo di vendere test e farmaci a donne relativamente sane. Peraltro spesso sono introdotti negli Stati Uniti concetti poi non accettati universalmente come quello di pre-ipertensione. Il dato di fatto, dice il gruppo di ricercatori ispano-canadese con la benedizione del solito Moynihan, è che il mercato dell'osteoporosi è in grande espansione e un grande impulso è arrivato proprio dal trattamento della pre-osteoporosi. Una condizione, che affligge oltre la metà delle donne caucasiche in età post-menopausale negli Stati Uniti, nella quale il rischio è quello di essere a rischio. Per verificare la fondatezza degli studi che dichiarano l'utilità dei farmaci per la pre-osteoporosi, gli autori hanno preso in esame quattro analisi successive di trial a sostegno della teoria. I risultati hanno rafforzato le loro ipotesi.

Trial addomesticati?


Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità l'osteoporosi si diagnostica confrontando i valori di densità ossea nella donna in esame con i valori delle donne a 30 anni, assunti come normali. Un parametro che gli stessi autori della definizione rivendicavano come "in qualche modo arbitrario" e inteso più per studi epidemiologici, che non come soglia clinica per la terapia. Ecco perché negli Stati Uniti, ma non solo, è stato incoraggiato il trattamento delle più giovani tra le donne in età post-menopausale a relativamente basso rischio di fratture. E all'interno di questa strategia anche la misura della densità minerale ossea è stata largamente promossa, come modalità chiave per diagnosticare l'osteoporosi. Sulla stessa lunghezza d'onda negli ultimi anni molte pubblicazioni scientifiche hanno rianalizzato i dati dei farmaci per l'osteoporosi, allo scopo di verificare i benefici con l'uso nella pre-osteoporosi. E sull'onda dei risultati di questi studi le aziende hanno cominciato a vendere farmaci alle donne con osteopenia. Ma ci sono forti dubbi, sostengono gli autori, sul rapporto beneficio-rischio per individui a basso rischio e anche sui costi della medicalizzazione di soggetti sani. E le rianalisi dei dati esagerano i benefici a scapito dei rischi. Per esempio gli autori di una di queste rianalisi parlano di un 75% di riduzione del rischio relativo senza puntualizzare che corrisponde a una riduzione del rischio assoluto dello 0,9%. In altre parole bisogna trattare per tre anni fino a 270 donne con pre-osteoporosi per riuscire a prevenire una sola frattura vertebrale in una sola donna. Per non parlare dei conflitti d'interesse, che coinvolgono anche le sedi istituzionali come l'OMS. Ora proprio l'OMS sta realizzando nuove linee guida per la valutazione e la terapia delle donne affette da osteopenia, nel frattempo, concludono gli autori, è bene chiedersi se questa tendenza abbia un reale effetto preventivo sulle fratture o se si tratti piuttosto di un trattamento non necessario e per di più dispendioso. Questa è la loro ipotesi, ma il dibattito è aperto.

Marco Malagutti



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