20 giugno 2008
Aggiornamenti e focus
Il futuro è nel DNA
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I vaccini sono un po' come i guantoni da boxe: si impara a combattere senza farsi male (o almeno non troppo). Questo fa il vaccino: induce il sistema immunitario a riconoscere l'aggressore, come avviene in corso di malattia, ma senza produrre la malattia stessa.
Per ottenere questo effetto, inizialmente, si ricorreva al batterio o al virus debitamente svirulentato, cioè indebolito, così che non possa scatenare l'infezione ma sia comunque riconoscibile dal sistema immunitario. Per ottenere un vaccino attenuato (questa la definizione corretta) si ricorre alla coltivazione in vitro di numerose generazioni del germe patogeno, oppure si espongono i germi all'azione di alcune sostanze chimiche, come la formalina. Ancora oggi sono numerosi i vaccini attenuati di comune impiego, per esempio l'antipolio orale (Sabin).
La ricerca oggi punta a ottenere vaccini sempre meno simili al microrganismo di partenza. O meglio, simili per quanto riguarda i tratti che consentono il riconoscimento da parte del sistema immunitario (antigeni), ma diversi perché privi di qualsiasi capacità di infettare l'organismo.
In questo senso, il primo grande progresso è stata l'introduzione dei vaccini a subunità. Non si inocula nel paziente il germe attenuato ma soltanto una sua frazione, generalmente degli antigeni presenti sulla sua superficie, di norma proteine.
Un'altra possibilità è usare soltanto la tossina prodotta da alcuni batteri patogeni, opportunamente resa inoffensiva con un trattamento chimico. Le tossine così trattate vengono definite tossoidi. Il vaccino antipertosse, per esempio, si basa appunto sul tossoide della Bordetella pertussis, il batterio all'origine della malattia.
Le subunità possono essere ottenute anche con la metodica del DNA ricombinante. In pratica si inserisce nel DNA di un batterio "buono" il gene del germe che comanda la produzione della proteina, così da produrne grandi quantità. Sono ottenuti in questo modo il vaccino contro l'epatite B e quello contro la malattia di Lyme. Il vantaggio? In pratica nulla di quanto viene introdotto nell'organismo ha mai avuto a che fare con il patogeno, quindi si azzera la possibilità di contaminazioni con altro materiale virale o batterico, spesso all'origine degli effetti collaterali registrati soprattutto nei bambini (rossore nel punto di inoculazione, febbre eccetera). Un passo successivo, attuato per quei particolari batteri dotati di una particolare struttura esterna detta capsula, è il ricorso non a proteine di superficie ma a oligosaccaridi o polisaccaridi (particolari tipi di zuccheri) specifici della capsula. L'evoluzione successiva sono i vaccini coniugati, nei quali il polisaccaride è legato a una frazione proteica, così da aumentare l'immunogenicità. Un vaccino coniugato di largo impiego è quello contro l'Haemophilus influenzae tipo b (Hib).
Come si può facilmente capire, la tendenza in questo campo è arrivare al punto di esporre le persone soltanto a quanto è indispensabile a creare l'immunizzazione, ma non una molecola di più. Per questo sono nati i vaccini peptidici, cioè quelli in cui non si usa neppure l'antigene intero, ma la sua frazione (il peptide, appunto) che viene riconosciuta dai linfociti B e T, ai quali spetta la produzione degli anticorpi. I vaccini peptidici, all'esordio contro la malaria, non hanno avuto un enorme successo. In effetti sono strutture relativamente fragili. Tuttavia, ricorrendo anche a sostanze adiuvanti, che cioè facilitano la presentazione dell'antigene alle cellule immunitarie, e procedendo a più somministrazioni, è possibile superare il problema. A meno di non ricorrere ad aggregati di più peptidi, come si sta facendo per i vaccini antimalarici e per quello contro la febbre reumatica causata da streptococchi tipo A.
I peptidi restano comunque una parte dell'antigene, ma si sta provando a usare direttamente come vaccino le porzioni di DNA virale e batterico che producono l'antigene. E' quello che viene fatto attualmente. Il meccanismo con cui funzionerebbe questo tipo di vaccini merita una breve spiegazione.
Il DNA estraneo, privato delle strutture proteiche che lo accompagnano di norma, entrerebbe facilmente nelle cellule bersaglio dell'organismo e qui verrebbe messo al lavoro, così da produrre l'antigene virale o batterico. Questo a sua volta, trovandosi all'interno della cellula, verrebbe immediatamente riconosciuto dal più potente dei "meccanismi" immunitari, il Complesso Maggiore di Istocompatibilità Classe I. Questa strada sembra essere la più promettente per le infezioni virali croniche come l'epatite C e B, l'herpes virus e l'HIV. Finora esperienze coi vaccini DNA sono state condotte (ovviamente nel topo) sull'influenza. Il rischio maggiore è che il DNA virale venga incorporato nel genoma dell'individuo ospite. Per ora non vi sono dati che indichino che questo avvenga, ma è necessario che il pericolo possa essere escluso prima di passare alla sperimentazione nell'uomo. Il sostanziale vantaggio di un vaccino di questo tipo è che induce una risposta immunitaria senz'altro superiore a quella dei vaccini tradizionali, dove le tecniche per svirulentare i germi possono anche alterare la struttura dell'antigene e forse superiore a quella della stessa infezione "naturale". La ragione starebbe nel fatto che l'antigene prodotto all'interno delle cellule dell'organismo ospite viene presentato per un periodo più lungo alle cellule competenti per l'immunità.
L'altra possibilità è di usare come vettore (carrier) dell'antigene un virus o un batterio attenuati. In pratica, si tratta di modificare il genoma del carrier in modo che produca l'antigene del germe responsabile della malattia contro cui è diretto il vaccino.
Frutta immunizzante e vaccini transcutanei
Il futuro potrebbe anche significare un addio alle iniezioni. In alcune piante transgeniche, infatti, si è riusciti a far crescere antigeni di superficie di batteri e virus patogeni.
Di conseguenza, molto presto potrebbe essere possibile vaccinarsi contro un certo numero di malattie semplicemente mangiando un frutto o una verdura ricche dell'antigene in questione. Esperienze di questo tipo sono già state condotte con l'antigene del virus dell'epatite B, l'enterotossina dell'E.coli (il batterio responsabile tra l'altro del famigerato hamburger disease, l'intossicazione da carne mal cotta). Per ora i test sono stati condotti sulle cavie, ma con buoni risultati.
Altro filone attualmente in sviluppo è la vaccinazione per via transdermica. L'antigene viene applicato sulla cute e da qui, penetrando attraverso l'epidermide, incontra le cellule di Langerhans. Queste ultime captano l'antigene e lo conducono con sé attraverso il sistema linfatico. Nei linfonodi l'antigene viene quindi presentato ai linfociti T, generando la risposta immunitaria voluta.
Insomma, anche se spesso fa meno notizia di altri aspetti, la ricerca nel campo dei vaccini è tutt'altro che marginale. E d'altra parte, con oltre 70 tra virus, batteri e funghi in grado di provocare malattie nell'uomo non potrebbe essere diversamente.
Maurizio Imperiali
Salute oggi:
...e inoltre su Dica33:
Per ottenere questo effetto, inizialmente, si ricorreva al batterio o al virus debitamente svirulentato, cioè indebolito, così che non possa scatenare l'infezione ma sia comunque riconoscibile dal sistema immunitario. Per ottenere un vaccino attenuato (questa la definizione corretta) si ricorre alla coltivazione in vitro di numerose generazioni del germe patogeno, oppure si espongono i germi all'azione di alcune sostanze chimiche, come la formalina. Ancora oggi sono numerosi i vaccini attenuati di comune impiego, per esempio l'antipolio orale (Sabin).
Vaccini più magri...
La ricerca oggi punta a ottenere vaccini sempre meno simili al microrganismo di partenza. O meglio, simili per quanto riguarda i tratti che consentono il riconoscimento da parte del sistema immunitario (antigeni), ma diversi perché privi di qualsiasi capacità di infettare l'organismo.
In questo senso, il primo grande progresso è stata l'introduzione dei vaccini a subunità. Non si inocula nel paziente il germe attenuato ma soltanto una sua frazione, generalmente degli antigeni presenti sulla sua superficie, di norma proteine.
Un'altra possibilità è usare soltanto la tossina prodotta da alcuni batteri patogeni, opportunamente resa inoffensiva con un trattamento chimico. Le tossine così trattate vengono definite tossoidi. Il vaccino antipertosse, per esempio, si basa appunto sul tossoide della Bordetella pertussis, il batterio all'origine della malattia.
Le subunità possono essere ottenute anche con la metodica del DNA ricombinante. In pratica si inserisce nel DNA di un batterio "buono" il gene del germe che comanda la produzione della proteina, così da produrne grandi quantità. Sono ottenuti in questo modo il vaccino contro l'epatite B e quello contro la malattia di Lyme. Il vantaggio? In pratica nulla di quanto viene introdotto nell'organismo ha mai avuto a che fare con il patogeno, quindi si azzera la possibilità di contaminazioni con altro materiale virale o batterico, spesso all'origine degli effetti collaterali registrati soprattutto nei bambini (rossore nel punto di inoculazione, febbre eccetera). Un passo successivo, attuato per quei particolari batteri dotati di una particolare struttura esterna detta capsula, è il ricorso non a proteine di superficie ma a oligosaccaridi o polisaccaridi (particolari tipi di zuccheri) specifici della capsula. L'evoluzione successiva sono i vaccini coniugati, nei quali il polisaccaride è legato a una frazione proteica, così da aumentare l'immunogenicità. Un vaccino coniugato di largo impiego è quello contro l'Haemophilus influenzae tipo b (Hib).
...addirittura senza antigene
Come si può facilmente capire, la tendenza in questo campo è arrivare al punto di esporre le persone soltanto a quanto è indispensabile a creare l'immunizzazione, ma non una molecola di più. Per questo sono nati i vaccini peptidici, cioè quelli in cui non si usa neppure l'antigene intero, ma la sua frazione (il peptide, appunto) che viene riconosciuta dai linfociti B e T, ai quali spetta la produzione degli anticorpi. I vaccini peptidici, all'esordio contro la malaria, non hanno avuto un enorme successo. In effetti sono strutture relativamente fragili. Tuttavia, ricorrendo anche a sostanze adiuvanti, che cioè facilitano la presentazione dell'antigene alle cellule immunitarie, e procedendo a più somministrazioni, è possibile superare il problema. A meno di non ricorrere ad aggregati di più peptidi, come si sta facendo per i vaccini antimalarici e per quello contro la febbre reumatica causata da streptococchi tipo A.
I peptidi restano comunque una parte dell'antigene, ma si sta provando a usare direttamente come vaccino le porzioni di DNA virale e batterico che producono l'antigene. E' quello che viene fatto attualmente. Il meccanismo con cui funzionerebbe questo tipo di vaccini merita una breve spiegazione.
Il DNA estraneo, privato delle strutture proteiche che lo accompagnano di norma, entrerebbe facilmente nelle cellule bersaglio dell'organismo e qui verrebbe messo al lavoro, così da produrre l'antigene virale o batterico. Questo a sua volta, trovandosi all'interno della cellula, verrebbe immediatamente riconosciuto dal più potente dei "meccanismi" immunitari, il Complesso Maggiore di Istocompatibilità Classe I. Questa strada sembra essere la più promettente per le infezioni virali croniche come l'epatite C e B, l'herpes virus e l'HIV. Finora esperienze coi vaccini DNA sono state condotte (ovviamente nel topo) sull'influenza. Il rischio maggiore è che il DNA virale venga incorporato nel genoma dell'individuo ospite. Per ora non vi sono dati che indichino che questo avvenga, ma è necessario che il pericolo possa essere escluso prima di passare alla sperimentazione nell'uomo. Il sostanziale vantaggio di un vaccino di questo tipo è che induce una risposta immunitaria senz'altro superiore a quella dei vaccini tradizionali, dove le tecniche per svirulentare i germi possono anche alterare la struttura dell'antigene e forse superiore a quella della stessa infezione "naturale". La ragione starebbe nel fatto che l'antigene prodotto all'interno delle cellule dell'organismo ospite viene presentato per un periodo più lungo alle cellule competenti per l'immunità.
L'altra possibilità è di usare come vettore (carrier) dell'antigene un virus o un batterio attenuati. In pratica, si tratta di modificare il genoma del carrier in modo che produca l'antigene del germe responsabile della malattia contro cui è diretto il vaccino.
Frutta immunizzante e vaccini transcutanei
Il futuro potrebbe anche significare un addio alle iniezioni. In alcune piante transgeniche, infatti, si è riusciti a far crescere antigeni di superficie di batteri e virus patogeni.
Di conseguenza, molto presto potrebbe essere possibile vaccinarsi contro un certo numero di malattie semplicemente mangiando un frutto o una verdura ricche dell'antigene in questione. Esperienze di questo tipo sono già state condotte con l'antigene del virus dell'epatite B, l'enterotossina dell'E.coli (il batterio responsabile tra l'altro del famigerato hamburger disease, l'intossicazione da carne mal cotta). Per ora i test sono stati condotti sulle cavie, ma con buoni risultati.
Altro filone attualmente in sviluppo è la vaccinazione per via transdermica. L'antigene viene applicato sulla cute e da qui, penetrando attraverso l'epidermide, incontra le cellule di Langerhans. Queste ultime captano l'antigene e lo conducono con sé attraverso il sistema linfatico. Nei linfonodi l'antigene viene quindi presentato ai linfociti T, generando la risposta immunitaria voluta.
Insomma, anche se spesso fa meno notizia di altri aspetti, la ricerca nel campo dei vaccini è tutt'altro che marginale. E d'altra parte, con oltre 70 tra virus, batteri e funghi in grado di provocare malattie nell'uomo non potrebbe essere diversamente.
Maurizio Imperiali
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