Cose da pazzi: il boom della malattia mentale nell’era degli psicofarmaci

30 ottobre 2013
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Cose da pazzi: il boom della malattia mentale nell’era degli psicofarmaci



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Prendete una ricerca americana della Harvard medical school che evidenzia come, negli ultimi 20 anni, si registri un peggioramento degli esiti dei pazienti schizofrenici negli Stati Uniti. Situazione ben peggiore di un secolo prima. Poi prendetene un'altra, dell'Organizzazione mondiale della sanità, che sottolinea come l'evoluzione della schizofrenia sia migliore nei paesi poveri come l'India e la Nigeria, rispetto a Sati Uniti e Paesi sviluppati. C'è qualcosa che non quadra?

Robert Whitaker, giornalista americano noto per i suoi scritti sulla psichiatria, dà la risposta in Indagine su un'epidemia (Giovanni Fioriti Editore), volume che affronta il fenomeno dell'aumento delle disabilità psichiatriche nell'epoca del boom degli psicofarmaci.

Ecco, intanto, la risposta al quesito: Whitaker indaga e scopre, leggendo articoli su articoli dalle fonti più autorevoli, che nei paesi in via di sviluppo solo il 16 per cento continuava ad assumere antipsicotici. Al resto pensavano le famiglie, che garantivano maggiori livelli di supporto ai propri cari rispetto ai paesi occidentali.

Il libro di Wtihaker mette in discussione l'eccessiva medicalizzazione della malattia mentale che ha portato alla cronicizzazione della stessa e non alla sua guarigione. Vale per la schizofrenia, come per la depressione o il disturbo bipolare. È tutto un susseguirsi di analisi, racconti di casi clinici, presentazione di tabelle tesi a evidenziare come la malattia mentale sia stata trasformata in questione meramente chimica: manca la serotonina, c'è troppa dopamina e così via. Utile, questo, secondo l'autore, a giustificare l'impiego del farmaco con quell'indicazione. Eppure tutta questa evidenza scientifica sulla teoria dello squilibrio chimico non pare granché supportata da prove.

Attenzione, però: sul banco degli accusati non c'è l'industria farmaceutica, come si potrebbe facilmente pensare. Il richiamo all'ordine è nei confronti degli psichiatri, troppo inclini all'uso del farmaco e molto meno allo sviluppo di relazioni terapeutiche con i pazienti.

I farmaci vanno utilizzati. Bisogna però tornare a interrogarsi su quando e come. «Possono attenuare i sintomi a breve termine e ci sono persone che grazie ai farmaci raggiungono una buona stabilità a lungo termine» dice Whitaker. «La psichiatria, però, dovrebbe ammettere che continuano a essere sconosciute le cause biologiche delle malattie mentali. Con questa presa d'atto, gli psichiatri potrebbero impegnarsi a capire quale sia l'uso più saggio e prudente dei farmaci e trovare approcci terapeutici alternativi».

Esempi di successo di queste strategie bilanciate vengono riportati nella parte finale del libro: mix di terapia farmacologica, psicoterapia sino alla proposizione di un "antidepressivo naturale" come l'attività fisica, che gode di ampie dimostrazione di efficacia negli studi scientifici e che, addirittura, in Inghilterra viene prescritta ai pazienti depressi dal 20 per cento dei medici di famiglia.

«Se la psichiatria fosse stata onesta con noi, questa epidemia si sarebbe fermata molto tempo fa», conclude Wtihaker. «Abbiamo bisogno di partecipare a un dibattito collettivo su questo argomento, discutendo di ciò che veramente si sa sull'origine biologica dei disturbi mentali. Si prescriverebbero farmaci in modo più prudente, si smetterebbe di dare ai bambini pesanti cocktail, il nostro delirio sulla rivoluzione psicofarmacologica potrebbe dissolversi e la luce delle ricerca scientifica di buona qualità potrebbe illuminare la strada che ci porta verso un futuro migliore».

Nicola Miglino



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