16 ottobre 2009
Interviste
Tumore del fegato: non solo bisturi
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Sono circa 6 mila i nuovi casi di tumore al fegato diagnosticati in Italia ogni anno e la ricerca, negli ultimi 20 anni, ha registrato numerosi successi che hanno consentito di offrire ai malati prognosi e qualità di vita migliori. La possibilità, infatti, di individuare pazienti in fase precoce e di selezionarli in base al trattamento più efficace ne ha cambiato la storia clinica. In aggiunta, le nuove terapie biologiche hanno permesso agli oncologi di offrire opportunità di cura anche a chi finora era destinato solo a trattamenti di tipo palliativo. Ne abbiamo parlato con Massimo Colombo, Ospedale Maggiore Policlinico, Mangiagalli e Regina Elena di Milano, Vincenzo Mazzaferro Istituto dei Tumori di Milano e Armando Santoro, Istituto Humanitas, Rozzano (Mi)
Prof. Colombo, l'atteggiamento terapeutico verso il carcinoma epatocellulare è cambiato in questi ultimi anni?
Decisamente sì, in particolare applicando criteri di classificazione dello stadio della malattia in grado di indirizzare il paziente al trattamento più efficace. Capita poi che l'evoluzione del tumore imponga scelte terapeutiche da aggiornare di volta in volta, magari iniziando con un trattamento locale o di contenimento per procedere all'intervento chirurgico, e infine, se il tumore non risponde in modo soddisfacente, al trattamento medico.
Quali sono i fattori di rischio ?
A quelli classici quali la cirrosi, causata da infezione cronica da virus dell'epatite C, abuso di alcol, infezione cronica da virus dell'epatite B, oggi si va ad aggiungere la cosiddetta sindrome plurimetabolica, poiché pazienti con diabete e malattie riconducibili a obesità e alterazioni dei livelli di grassi nel sangue sono a maggior rischio di sviluppo del carcinoma epatocellulare.
Prof. Mazzaferro, quali risultati si possono ottenere con le terapie chirurgiche?
Con la resezione del tumore e il trapianto del fegato, si possono ottenere risultati significativi. Nel caso della resezione, in pazienti particolarmente selezionati secondo criteri precisi si può arrivare a una probabilità di sopravvivenza prossima al 60-70% a distanza di 5 anni dall'intervento chirurgico. Nel trapianto del fegato, applicando criteri altrettanto precisi, la sopravvivenza può risultare ancora più elevata, e arrivare all'80-85% a 5 anni dall'intervento.
Esistono organi sufficienti per i trapianti?
No e per ovviare a questo aspetto si stanno facendo notevoli sforzi di studio e di codifica di tutti i fattori che concorrono, in ciascun paziente, a determinare la sua prognosi dopo il trapianto, cercando di elaborare criteri che permettano di offrire questa prospettiva solo a chi può avere i migliori risultati a distanza.
Prof. Santoro, sino a poco tempo fa non c'erano farmaci efficaci a disposizione degli oncologi. Che cosa è cambiato?
È vero, sino a non più di 10 anni fa non avevamo trattamenti medici specifici contro il carcinoma epatocellulare in fase avanzata. Negli ultimi anni, i dati ottenuti con una nuova molecola, sorafenib, hanno aperto un nuovo filone di ricerca e di interesse clinico. Questa molecola ha dimostrato di essere in grado di migliorare in modo significativo, portandola da una media di 5-6 mesi a 10-11, la sopravvivenza di pazienti che fino a pochi anni fa erano gestiti esclusivamente con terapie palliative e nessun tipo di trattamento specifico antitumorale.
Quali sono le prospettive future?
Oltre ad aver confermato l'efficacia di questo farmaco nel tumore in fase avanzata, le vere nuove prospettive sono legate all'utilizzo successivo all'intervento chirurgico o in combinazione a metodiche loco-regionali. Un altro interessante filone di ricerca è quello che riguarda l'utilizzo di sorafenib in combinazione con altre terapie di tipo biologico.
Nicola Miglino
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Prof. Colombo, l'atteggiamento terapeutico verso il carcinoma epatocellulare è cambiato in questi ultimi anni?
Decisamente sì, in particolare applicando criteri di classificazione dello stadio della malattia in grado di indirizzare il paziente al trattamento più efficace. Capita poi che l'evoluzione del tumore imponga scelte terapeutiche da aggiornare di volta in volta, magari iniziando con un trattamento locale o di contenimento per procedere all'intervento chirurgico, e infine, se il tumore non risponde in modo soddisfacente, al trattamento medico.
Quali sono i fattori di rischio ?
A quelli classici quali la cirrosi, causata da infezione cronica da virus dell'epatite C, abuso di alcol, infezione cronica da virus dell'epatite B, oggi si va ad aggiungere la cosiddetta sindrome plurimetabolica, poiché pazienti con diabete e malattie riconducibili a obesità e alterazioni dei livelli di grassi nel sangue sono a maggior rischio di sviluppo del carcinoma epatocellulare.
Prof. Mazzaferro, quali risultati si possono ottenere con le terapie chirurgiche?
Con la resezione del tumore e il trapianto del fegato, si possono ottenere risultati significativi. Nel caso della resezione, in pazienti particolarmente selezionati secondo criteri precisi si può arrivare a una probabilità di sopravvivenza prossima al 60-70% a distanza di 5 anni dall'intervento chirurgico. Nel trapianto del fegato, applicando criteri altrettanto precisi, la sopravvivenza può risultare ancora più elevata, e arrivare all'80-85% a 5 anni dall'intervento.
Esistono organi sufficienti per i trapianti?
No e per ovviare a questo aspetto si stanno facendo notevoli sforzi di studio e di codifica di tutti i fattori che concorrono, in ciascun paziente, a determinare la sua prognosi dopo il trapianto, cercando di elaborare criteri che permettano di offrire questa prospettiva solo a chi può avere i migliori risultati a distanza.
Prof. Santoro, sino a poco tempo fa non c'erano farmaci efficaci a disposizione degli oncologi. Che cosa è cambiato?
È vero, sino a non più di 10 anni fa non avevamo trattamenti medici specifici contro il carcinoma epatocellulare in fase avanzata. Negli ultimi anni, i dati ottenuti con una nuova molecola, sorafenib, hanno aperto un nuovo filone di ricerca e di interesse clinico. Questa molecola ha dimostrato di essere in grado di migliorare in modo significativo, portandola da una media di 5-6 mesi a 10-11, la sopravvivenza di pazienti che fino a pochi anni fa erano gestiti esclusivamente con terapie palliative e nessun tipo di trattamento specifico antitumorale.
Quali sono le prospettive future?
Oltre ad aver confermato l'efficacia di questo farmaco nel tumore in fase avanzata, le vere nuove prospettive sono legate all'utilizzo successivo all'intervento chirurgico o in combinazione a metodiche loco-regionali. Un altro interessante filone di ricerca è quello che riguarda l'utilizzo di sorafenib in combinazione con altre terapie di tipo biologico.
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