Cuori occupati

03 novembre 2006
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Cuori occupati



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Quante volte, in un momento di difficoltà emotiva o causato da un problema fisico, ci siamo sentiti consigliare di non lasciarci andare e trovarci qualcosa da fare, in altre parole di "tenerci occupati"? Dietro a quello che potrebbe sembrare un luogo comune c'è una realtà che si chiama terapia occupazionale: in pratica una forma di cura che va ad integrare quelle farmacologiche e che consiste appunto nello stimolare il paziente ad assolvere compiti più o meno complessi sotto la guida di un terapista; viene utilizzata abbastanza spesso negli Stati Uniti in seguito a problemi di salute che hanno causato la perdita parziale o totale dell'autosufficienza e uno degli ambiti in cui è maggiormente applicata è la riabilitazione in seguito a un ictus. Si calcola infatti che circa un terzo dei sopravvissuti a un attacco ischemico non riesca a riacquistare completamente le proprie capacità e debba dipendere da altri anche per periodi molto lunghi, con le intuibili gravi ripercussioni sulla qualità della vita del malato e di chi gli sta vicino. Le attività che possono essere compromesse in seguito a un attacco ischemico sono di diverso tipo e vanno dalle più semplici -mangiare, lavarsi, spostarsi- alle più articolate come viaggiare o prendersi cura dei propri figli e l'entità del problema è notevole se si pensa a quanto frequenti siano gli ictus nei paesi occidentali. In un articolo recentemente pubblicato su The Cochrane Library un gruppo di ricercatori ha raccolto tutti gli studi degli ultimi anni riguardanti la terapia occupazionale in seguito ad attacco ischemico e si è posto due domande: è il metodo giusto per minimizzare i rischi di deterioramento delle capacità? Può determinare un effettivo miglioramento della qualità della vita? Dall'analisi dei dati sembrerebbe che la risposta sia affermativa a entrambe le questioni: in 1348 pazienti provenienti da 10 studi in cui veniva applicata la terapia, sono stati osservati un decorso favorevole e un progressivo miglioramento nello svolgimento delle attività giornaliere.

Mancano i protocolli


Una volta affermata l'effettiva utilità di questo tipo di terapia, sorge un altro problema: stabilire quali siano le modalità di intervento che garantiscano il migliore risultato.
In altre parole, va bene tenersi occupati ma sarebbe importante sapere anche con quali attività si ottengono i risultati migliori e per quanto tempo è necessario proseguire con la cura.
Purtroppo per queste domande non c'è ancora una risposta, e se è vero che l'articolo dimostra che la cura funziona, è altrettanto evidente che dietro al termine "terapia occupazionale" c'è tanta confusione. Non esistono protocolli definiti, non c'è un metodo che si sia dimostrato più efficace di altri, e ci si trova di fronte a una realtà troppo eterogenea per poter essere analizzata e compresa a fondo.
In linea di massima la maggior parte dei terapisti si concentrava sulle attività della vita di tutti i giorni: vestirsi, mangiare, lavarsi e compiere piccoli spostamenti, ma è chiaro che gli obiettivi erano stabiliti di volta in volta tenendo presenti le reali capacità del malato.
E allora può essere utile, una volta in più, affidarsi al buon senso: osservare cosa il malato riesce a fare e cosa no e stabilire di volta in volta degli obiettivi ragionevoli. In altre parole, tenerlo occupato.

Raffaella Bergottini



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