23 dicembre 2005
Aggiornamenti e focus
Il pacing non toglie l'apnea
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La patofisiologia della sindrome da apnea ostruttiva notturna è molto complessa e non del tutto conosciuta, e nemmeno c’è accordo sulla valutazione della gravità e, quindi, sul momento e sui casi in cui diventa necessario intervenire. Ciò che invece è noto è che, riducendo il numero di episodi, anche di ipoapnea e di russamento e la desaturazione dell’emoglobina, diminuisce il numero di incidenti stradali (che coinvolgono persone con questo disturbo), migliora la pressione sanguigna, la sensibilità barocettiva (cioè la capacità di controllare le variazioni della pressione sanguigna), e le aritmie. I metodi adottati per trattare questi pazienti vanno dalla chirurgia delle vie aeree superiori alla perdita di peso, dai dispositivi orali all’applicazione nasale di pressione aerea positiva continua (n-CPAP).
Quest’ultima è considerata la terapia di prima linea e, in effetti, ha dimostrato di migliorare efficacemente la sintomatologia; tuttavia, presenta un problema di aderenza da parte dei pazienti perché prevede l’applicazione di una maschera nasale. Un’altra via che si sta tentando e sperimentando è quella che interviene sul battito cardiaco. E’ stato osservato che, portando la frequenza atriale a 15 battiti al di sopra della frequenza cardiaca media (atrial overdrive pacing, AOP) si riduce significativamente il numero di episodi, o per lo meno così è stato in un gruppo di pazienti con apnea notturna, in cui il pacing era stato applicato a causa di disturbi cardiaci. Non era chiaro, a livello fisiopatologico, perché ciò accadesse e, soprattutto, se era possibile utilizzare il metodo per periodi prolungati. In effetti, nel caso di apnea notturna centrale (quella provocata dall’assenza del segnale nervoso che controlla i movimenti respiratori), il risultato positivo era prevedibile. Aumentando l’eiezione cardiaca, si abbrevia il tempo di circolazione e si riduce la congestione polmonare. Ciò che non si spiega, invece, sono gli effetti benefici sull’apnea ostruttiva, risultati per altro non sempre confermati, anzi. Infatti se in alcuni studi sono stati rilevati in altri non si è arrivati alla stessa conclusione, lasciando sostanzialmente aperta la questione.
In uno dei più recenti di questi studi, infatti, gli autori non sono riusciti a dimostrare l’effetto positivo, mettendo a confronto il metodo AOP con il n-CPAP. Tutti i pazienti, 16 in tutto, avevano un storia di sincope e bradiaritmia, con impianto di un pace maker che è stato utilizzato secondo il regime consigliato dalla letteratura. Una parte del gruppo, però, è stata avviata alla terapia con n-CPAP. Gli esiti sono stati verificati nelle 24 ore e nel mese successivo
A distanza di un mese mentre le variabili respiratorie misurate durante l’AOP restavano sostanzialmente invariate, quelle dei pazienti sottoposti a n-CPAP miglioravano decisamente.
Chiaramente questi risultati non danno la prova definitiva che il metodo non funziona e gli stessi autori auspicano ulteriori approfondimenti in merito.
Simona Zazzetta
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Battiti rallentati
Quest’ultima è considerata la terapia di prima linea e, in effetti, ha dimostrato di migliorare efficacemente la sintomatologia; tuttavia, presenta un problema di aderenza da parte dei pazienti perché prevede l’applicazione di una maschera nasale. Un’altra via che si sta tentando e sperimentando è quella che interviene sul battito cardiaco. E’ stato osservato che, portando la frequenza atriale a 15 battiti al di sopra della frequenza cardiaca media (atrial overdrive pacing, AOP) si riduce significativamente il numero di episodi, o per lo meno così è stato in un gruppo di pazienti con apnea notturna, in cui il pacing era stato applicato a causa di disturbi cardiaci. Non era chiaro, a livello fisiopatologico, perché ciò accadesse e, soprattutto, se era possibile utilizzare il metodo per periodi prolungati. In effetti, nel caso di apnea notturna centrale (quella provocata dall’assenza del segnale nervoso che controlla i movimenti respiratori), il risultato positivo era prevedibile. Aumentando l’eiezione cardiaca, si abbrevia il tempo di circolazione e si riduce la congestione polmonare. Ciò che non si spiega, invece, sono gli effetti benefici sull’apnea ostruttiva, risultati per altro non sempre confermati, anzi. Infatti se in alcuni studi sono stati rilevati in altri non si è arrivati alla stessa conclusione, lasciando sostanzialmente aperta la questione.
Metodi a confronto
In uno dei più recenti di questi studi, infatti, gli autori non sono riusciti a dimostrare l’effetto positivo, mettendo a confronto il metodo AOP con il n-CPAP. Tutti i pazienti, 16 in tutto, avevano un storia di sincope e bradiaritmia, con impianto di un pace maker che è stato utilizzato secondo il regime consigliato dalla letteratura. Una parte del gruppo, però, è stata avviata alla terapia con n-CPAP. Gli esiti sono stati verificati nelle 24 ore e nel mese successivo
A distanza di un mese mentre le variabili respiratorie misurate durante l’AOP restavano sostanzialmente invariate, quelle dei pazienti sottoposti a n-CPAP miglioravano decisamente.
Chiaramente questi risultati non danno la prova definitiva che il metodo non funziona e gli stessi autori auspicano ulteriori approfondimenti in merito.
Simona Zazzetta
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