Pugni, geni e tossine

07 novembre 2003
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Pugni, geni e tossine



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Il primo a darne una dettagliata descrizione clinica è stato nel 1817 un medico inglese di nome James Parkinson. A partire da quella data si è arrivati a definire sempre meglio quello che è oggi noto come morbo di Parkinson, una degenerazione cronica e progressiva di una piccola parte del sistema nervoso centrale chiamata sostanza nera. È in quest'area che si produce la dopamina, essenziale per un controllo efficace e accurato dei movimenti di tutto il corpo. La malattia colpisce raramente prima dei 50 anni di età ed è caratterizzata da tremore, rigidità e difficoltà nei movimenti. Sembra manifestarsi più nel sesso maschile che in quello femminile e la sua incidenza nei paesi occidentali è di circa 360 ogni 100 mila persone, che significa lo 0,5% della popolazione secondo l'OMS. In Italia i malati sono circa 220mila, con una media di 1200 nuovi casi l'anno. Ma da che cosa dipende?

Cause ancora da dimostrare


I motivi per cui si verifica un improvviso blocco nella produzione di dopamina, da parte delle cellule dei gangli posti alla base del cervello, sono ancora sconosciuti, anche se sono state avanzate varie ipotesi tra le quali prevalgono quella genetica e quella tossica. Il fatto che il morbo di Parkinson, pur presentando sintomi piuttosto specifici, sia stato descritto per la prima volta solo nel 1800 costituisce un indizio a favore dell'ipotesi tossica, che fa risalire la causa ad una sostanza chimica prodotta dall'inquinamento ambientale. Un'ipotesi mai confutata ma tuttora presa in considerazione dalla ricerca. Una scoperta, poi, che ha molto contribuito all'ipotesi tossica è la scoperta di una particolare tossina (MPTP), che è causa di una patologia irreversibile simile al Parkinson. Il suo ruolo emerse alla fine degli anni '70, quando fu riscontrato che numerosi pazienti in gioventù avevano fatto uso di sostanze stupefacenti contenenti MPTP. A livello epidemiologico circostanze interessanti riguardano il fatto che il Parkinson affligge solo i non fumatori, il che ha lasciato supporre che la nicotina possa assolvere a una funzione protettiva. In secondo luogo pare che l'incidenza sia maggiore nelle aree rurali che in quelle urbane. Quanto all'ipotesi ereditaria non pare confermata da studi su gemelli identici: la diagnosi di Parkinson in uno dei due non aumenta la probabilità che l'altro fratello possa contrarre la malattia, quantomeno in forma conclamata. Studi più recenti, effettuati per mezzo della tomografia a emissione di positroni, sembrano attribuire all'ipotesi genetica un'importanza maggiore. I pugili professionisti, inoltre, a seguito dei violenti colpi al capo cui sono soggetti, possono sviluppare una sindrome di Parkinson di carattere progressivo, il caso di Cassius Clay ne è triste dimostrazione. Da non trascurare, infine, l'ipotesi legata all'età. Perché la malattia insorge attorno ai 60 anni? Nell'adulto sano la perdita di cellule e pigmento nella sostanza nera è maggiore proprio intorno al sessantesimo anno d'età. Viene meno così la protezione delle cellule contenenti dopamina e il cervello delle persone anziane è, inevitabilmente, più predisposto al Parkinson.

Un morbo che degenera


Nelle fasi iniziali della malattia, i sintomi possono variare da persona a persona, ma il sintomo caratteristico del morbo è il tremore della mano, che si manifesta a riposo ed è assente quando la mano viene utilizzata. Il tremore, associato a rigidità e difficoltà nei movimenti, inizia generalmente alla mano destra o al piede destro, può scomparire da un arto e colpirne un altro, finché, estendendosi progressivamente, nel volgere di due anni interessa entrambi i lati del corpo, facendo assumere alla persona un'andatura caratteristica: il tronco è inclinato in avanti mentre la colonna vertebrale, le anche, le ginocchia e le caviglie restano leggermente piegate. La scrittura diviene tremante, la voce diviene flebile e qualche volta rauca, cambia l'espressione del volto dovuta alla riduzione della mimica facciale. Con il passare del tempo la situazione degenera per cui si resta immobili a letto. Il periodo durante il quale si compie questo processo varia da persona a persona, ma generalmente resta compreso tra 10 e 20 anni.

In attesa delle staminali

E la terapia? Molti scommettono sulle staminali per la cura del Parkinson: coltivare cellule che possano essere impiantate nel cervello del malato al posto di quelle morte a causa della malattia. Ma per ora si tratta di una speranza. Ad oggi le due strade percorse dalla scienza medica sono quella farmacologica e quella chirurgica, in costante ascesa. La farmacoterapia si basa sulla sostituzione della dopamina ed è in grado di migliorare drasticamente la qualità di vita dei pazienti. Il farmaco più utilizzato storicamente è la levodopa, precursore della dopamina, insieme alle molecole che imitano la sua azione, dopaminergici come la bromocriptina e la cabergolina. I dopaminergici sono oggi considerati farmaci di prima scelta per iniziare la terapia in quanto evitano le discinesie (movimenti bruschi e involontari) indotte dall'uso prolungato della levodopa. Altre sostanze inibiscono la degradazione della dopamina (inibitori della MAO-B) o interferiscono con l'acetilcolina (anticolinergici). I farmaci non agiscono solo a livello delle cellule degenerate ma anche su altri sistemi, possono causare effetti collaterali psichici, cardio-circolatori o gastointestinali. È perciò importante individuare nel singolo paziente e per ogni stadio della malattia quale farmaco o quale combinazione di farmaci abbia il massimo effetto con un minimo di effetti collaterali. Recentemente si sta affermando in alternativa la terapia chirurgica che usa l'impianto di elettrodi stimolanti in determinati nuclei del sistema extrapiramidale. La terapia chirurgica richiede una buona collaborazione tra neurologi e neurochirurghi esperti, sia per garantire l'esatto posizionamento degli elettrodi sia per fornire la necessaria assistenza post-operatoria. Per questo si effettua solo in centri specializzati, una quindicina in Italia, e su pazienti con sintomi gravi in cui sia stata dimostrata l'inefficacia dei farmaci oppure un certo tipo di intolleranza alla levodopa che si può instaurare dopo terapia prolungata. Oggi i malati di Parkinson trattati chirurgicamente sono circa 8000 nel mondo, in Italia si è a qualche centinaio di interventi.

Ma quale futuro attende il paziente parkinsoniano? Il futuro della ricerca sta nella individuazione di farmaci sempre meglio tollerati e nella precisa definizione del ruolo degli agonisti dopaminergici nella terapia iniziale, nella scoperta dei meccanismi molecolari che provocano la neurodegenerazione con la successiva speranza di bloccarli e di arrestare in questo modo la progressione dei sintomi, e, infine, nella elaborazione di protocolli chirurgici sempre più sofisticati.

Marco Malagutti



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