24 marzo 2005
Aggiornamenti e focus
Prevenzione con il bisturi
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Già da qualche tempo in Europa si tende a distinguere l'approccio ad alcune malattie molto diffuse rispetto a quello adottato negli Stati Uniti. Una di queste è il carcinoma della mammella, dove il nodo della questione è soprattutto l'aggressività. La polemica, per la verità, era cominciata già a metà degli anni novanta, a seguito della scoperta dei geni BRCA1 e BRCA2 che, in alcune popolazioni, si associa a un aumento molto forte della frequenza del tumore, in particolare nelle donne di etnia ebraica. All'epoca cominciò a prendere vigore una pratica peraltro già presente: la mastectomia bilaterale, più o meno invasiva, preventiva. In effetti gli studi condotti in alcune situazioni mostravano, mediando i dati, una riduzione del 90% dei casi di tumore nelle donne che si affidavano alla prevenzione chirurgica. Un approccio che però da questa parte dell'Atlantico ha incontrato ben poco successo.
Uno studio condotto proprio negli Stati Uniti ha voluto controllare se questo effetto della mastectomia preventiva era dovuto alle casistiche prese finora in considerazione, gruppi di pazienti molto selezionate, trattate in centri di alta specializzazione, o se il risultato si riproduceva anche esaminando gli interventi condotti nelle normali strutture di cura e nella popolazione generale. Per farlo è stata raccolta la storia delle donne ad alto rischio sottoposte a mastectomia preventiva e delle donne che, pur avendo le stesse caratteristiche, non erano state operate. Ovviamente è centrale la definizione di rischio: nello studio si consideravano candidate possibili le donne con una consanguinea di primo grado affetta dalla malattia, oppure che avevano sviluppato un'iperplasia atipica, oppure che avevano subito più biopsie conclusesi con l'identificazione di patologie benigne.
In termini assoluti sono state considerate 276 donne operate e 198 non operate, corrispondenti dal punto di vista statistico a un campione di oltre 600000 donne. La conferma del dato iniziale si è avuto: nelle donne con mastectomia preventiva si è presentato un solo caso di tumore (pari allo 0,4%) mentre nel gruppo di controllo i tumori, dopo l'estrapolazione statistica, avrebbero rappresentato il 4%. Secondo gli autori, anche assumendo la stima più prudente, il rischio si riduce del 75%. Però c'è un però. In assoluto il rischio è molto basso, al massimo il 4%, e l'intervento chirurgico non è l'unica scelta possibile: per esempio i trattamenti con tamoxifene, nelle persone esposte, riduce l'incidenza della malattia del 49%, che non è poco. Inoltre molto possono fare gli screening periodici, che nel caso delle donne con fattori di rischio riconosciuti potrebbero anche essere più ravvicinati, così da aumentare le probabilità di diagnosi precoce. E' vero, come sottolineano gli autori, che molto probabilmente il campione esaminato non rappresentava il gruppo delle donne portatrici delle mutazioni BRCA1 e BRCA2 e che, quindi, in questa popolazione il discorso cambia. Ma resta il fatto che, a loro avviso, alla donna a medio-alto rischio andrebbero presentate tutte le possibili alternative. E forse si comincia a mettere in discussione tanta aggressività: anche perché un conto è quanti tumori si presentano, un altro quanti sono mortali. E in fatto di mortalità, la forbice si riduce ancora di più.
Maurizio Imperiali
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Un gruppo trattato fuori dai centri di riferimento
Uno studio condotto proprio negli Stati Uniti ha voluto controllare se questo effetto della mastectomia preventiva era dovuto alle casistiche prese finora in considerazione, gruppi di pazienti molto selezionate, trattate in centri di alta specializzazione, o se il risultato si riproduceva anche esaminando gli interventi condotti nelle normali strutture di cura e nella popolazione generale. Per farlo è stata raccolta la storia delle donne ad alto rischio sottoposte a mastectomia preventiva e delle donne che, pur avendo le stesse caratteristiche, non erano state operate. Ovviamente è centrale la definizione di rischio: nello studio si consideravano candidate possibili le donne con una consanguinea di primo grado affetta dalla malattia, oppure che avevano sviluppato un'iperplasia atipica, oppure che avevano subito più biopsie conclusesi con l'identificazione di patologie benigne.
Esistono alternative efficaci
In termini assoluti sono state considerate 276 donne operate e 198 non operate, corrispondenti dal punto di vista statistico a un campione di oltre 600000 donne. La conferma del dato iniziale si è avuto: nelle donne con mastectomia preventiva si è presentato un solo caso di tumore (pari allo 0,4%) mentre nel gruppo di controllo i tumori, dopo l'estrapolazione statistica, avrebbero rappresentato il 4%. Secondo gli autori, anche assumendo la stima più prudente, il rischio si riduce del 75%. Però c'è un però. In assoluto il rischio è molto basso, al massimo il 4%, e l'intervento chirurgico non è l'unica scelta possibile: per esempio i trattamenti con tamoxifene, nelle persone esposte, riduce l'incidenza della malattia del 49%, che non è poco. Inoltre molto possono fare gli screening periodici, che nel caso delle donne con fattori di rischio riconosciuti potrebbero anche essere più ravvicinati, così da aumentare le probabilità di diagnosi precoce. E' vero, come sottolineano gli autori, che molto probabilmente il campione esaminato non rappresentava il gruppo delle donne portatrici delle mutazioni BRCA1 e BRCA2 e che, quindi, in questa popolazione il discorso cambia. Ma resta il fatto che, a loro avviso, alla donna a medio-alto rischio andrebbero presentate tutte le possibili alternative. E forse si comincia a mettere in discussione tanta aggressività: anche perché un conto è quanti tumori si presentano, un altro quanti sono mortali. E in fatto di mortalità, la forbice si riduce ancora di più.
Maurizio Imperiali
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