Le nevrosi dei media

28 settembre 2007
Aggiornamenti e focus

Le nevrosi dei media



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Quando c'è un messaggio da trasmettere al pubblico, che riguardi un argomento non propriamente familiare ai più, come la medicina, le malattie e le cure, gli organi di stampa sono convocati, informati e poi magari accusati di diffondere inesattezze.Il principio di partenza è corretto poiché è compito dei giornalisti informare, e solo i mass media - in quanto tali - sono in grado di raggiungere le masse in un tempo ragionevole.Scopo lodevole e strumenti adeguati non bastano, però, a garantire il risultato. E non accade solo quando la materia da comunicare sia oggettivamente complessa da comprendere.È il caso dei temi inerenti la salute mentale, come testimonia Greg Miller dalle pagine di Lancet: da un lato si compiono sforzi per combattere lo stigma sociale che colpisce chi ne soffre, dall'altro, involontariamente, gli stessi organi d'informazione utilizzano un linguaggio che rinforza gli stereotipi negativi, quelli del soggetto "strano, imprevedibile e probabilmente pericoloso" piuttosto che malato.

Fatti e parole


La strage del 6 aprile di quest'anno, avvenuta in una piccola cittadina della Virginia, esemplifica alcuni errori dei media. Seung-Hui Cho, uno studente della Virginia Tech University di Blacksburg ha aperto il fuoco nel dormitorio e poi in una classe, uccidendo 32 compagni e se stesso. Naturalmente la notizia ha destato enorme scalpore e i comunicati si sono succeduti rapidamente. Poche ore dopo la sparatoria il commentatore della CNN, Jack Cafferty, dichiarava "non c'è modo di anticipare uno psicopatico, e questo è chiaramente ciò con cui abbiamo a che fare qui". Peccato che al momento ancora non fosse stata resa pubblica l'identità del responsabile, e nessuna informazione circa il suo stato di salute mentale. Insomma la reazione a caldo è ancora quella "omicida = pazzo".
Una settimana più tardi i toni si erano già ammorbiditi e il Wall Street Journal chiamava in causa i manager che "devono ripensare gli schemi di sicurezza, prevedendo come individuare i soggetti con problemi mentali prima che possano nuocere a se stessi o agli altri".
In mezzo, non sono mancati i servizi sulle opinioni dei coreani residenti negli Stati Uniti: c'era chi si dichiarava scioccato e dispiaciuto, chi già temeva che la tragedia potesse seminare, nell'opinione pubblica, un'ombra di pregiudizio nei confronti della comunità coreana.
Pochi, invece, i reporter che hanno cercato il punto di vista dei soggetti con disturbi mentali, la maggioranza dei quali presumibilmente aveva la stessa paura dei connazionali dell'aggressore, cioè di essere giudicato colpevole per associazione. E anche quando il dibattito giornalistico si è spostato sui diritti dei malati, parlando di leggi per il ricovero psichiatrico non volontario, privacy dei dati sanitari, limitazioni per l'acquisto di armi, raramente si è sentito il bisogno di chiedere l'opinione dei soggetti in questione.

Disagio comunica disagio


Nel complesso Cafferty non è stato l'unico a ricorrere a termini denigratori, e l'errore mediatico si ripropone sempre in simili situazioni. Ma perché continua ad accadere in questo particolare contesto? La risposta più probabile è che, nelle pieghe dell'inconscio, anche i giornalisti sono vittime degli stereotipi dominanti. Altrove, infatti, certi termini gergali e dispregiativi, legati all'etnia, a infermità fisiche, al credo religioso o politico, non sono più concepibili. Non vengono più usati e, nel caso, non sarebbero mai accettati, neanche nella descrizione dei responsabili di gravi delitti. Quando si tratta di patologie della mente, invece, è ancora difficile prendere le distanze dal sentimento comune. Per interrompere davvero la stigmatizzazione dei pazienti, servono l'umiltà e la pazienza di pesare accuratamente le proprie parole. Prima di metterle accanto a quelle dei diretti interessati.

Elisabetta Lucchesini



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