23 gennaio 2004
Aggiornamenti e focus, Speciale Depressione
Psicologica ma concreta
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Nel trattamento della depressione esistono diverse possibilità e la divisione più grossolana è quella tra ricorso ai farmaci o alla psicoterapia. Quest'ultima ha sempre sofferto dello scetticismo di una parte del pubblico (ma anche di una parte dei medici). In effetti, per molti il farmaco rappresenta qualcosa di materiale che può a buon diritto agire su un organo come il cervello, mentre l'idea di poter agire su una condizione organica "con il pensiero" suscita una certa resistenza. Uno studio canadese appena pubblicato offre però una prova concreta dell'azione della psicoterapia.
Lo studio si è svolto praticando a 14 pazienti colpiti da depressione un esame, la tomografia a emissione di positroni (PET), che consente di visualizzare l'attività delle diverse aree cerebrali, valutandone il metabolismo. Il test è stato condotto una prima volta e, successivamente, dopo che i pazienti avevano completato, con successo, un ciclo di psicoterapia cognitivo comportamentale (15-20 sedute). Questa consiste, in poche parole, in una serie di tecniche che mira a interrompere sul nascere le ideazioni e i pensieri che accompagnano le variazioni negative dell'umore, cercando di spezzare il circolo vizioso. Lo scopo della terapia, dunque, è quello di conferire al paziente stesso la capacità di non deprimersi. Ebbene, la PET eseguita al termine della terapia ha mostrato che effettivamente si verifica un cambiamento cerebrale con aumento dell'attività di alcune aree della regione limbica e della corteccia frontale, le stesse che vengono influenzate dai farmaci antidepressivi.
Tuttavia lo schema non è lo stesso: la psicoterapia causa l'aumento del metabolismo di due aree chiamate ippocampo e cingolo dorsale e una diminuzione dell'attività della corteccia dorsale, mediana e ventrale; un farmaco ampiamente usato come la paroxetina, invece, provoca un aumento del metabolismo nell'area prefrontale e una diminuzione di quello dell'ippocampo e di altre aree. Insomma c'è un effetto organico per entrambe le terapie ma è differente. Secondo gli autori della ricerca, si può dire che la psicoterapia segue un percorso che va "dall'alto al basso", cioè riducendo i pensieri negativi, cosa testimoniata dalla riduzione dell'attività della corteccia, che del pensiero è la sede. Al contrario, quella dei farmaci è un'azione "dal basso verso l'alto", in quanto agiscono sullo stato biochimico del cervello modificando la funzionalità delle aree più legate alle emozioni fondamentali e ai ritmi circadiani. Insomma due strade diverse, probabilmente complementari, per raggiungere il medesimo risultato e per fare un esempio molto semplice è un po' come evitare di far traboccare l'acqua da una vasca: si può aumentare la portata dello scarico oppure ridurre quella del tubo di carico dell'acqua.
Questa, però, non è l'unica implicazione dello studio: gli schemi d'azione differenti potrebbero rendere ragione anche del fatto che non tutte le terapie attuabili per la depressione sono ugualmente efficaci in tutti i pazienti. In più c'è la speranza che questa scoperta, che andrà confermata su campioni più numerosi, consenta anche di controllare l'andamento delle terapie e, in caso di insuccesso, di cambiare approccio. Non solo: dalla valutazione iniziale con la PET, aumentando i dati disponibili, non è escluso che si possa scegliere quale è la terapia più adatta al singolo paziente.
Maurizio Imperiali
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La psicoterapia interviene sul metabolismo cerebrale
Lo studio si è svolto praticando a 14 pazienti colpiti da depressione un esame, la tomografia a emissione di positroni (PET), che consente di visualizzare l'attività delle diverse aree cerebrali, valutandone il metabolismo. Il test è stato condotto una prima volta e, successivamente, dopo che i pazienti avevano completato, con successo, un ciclo di psicoterapia cognitivo comportamentale (15-20 sedute). Questa consiste, in poche parole, in una serie di tecniche che mira a interrompere sul nascere le ideazioni e i pensieri che accompagnano le variazioni negative dell'umore, cercando di spezzare il circolo vizioso. Lo scopo della terapia, dunque, è quello di conferire al paziente stesso la capacità di non deprimersi. Ebbene, la PET eseguita al termine della terapia ha mostrato che effettivamente si verifica un cambiamento cerebrale con aumento dell'attività di alcune aree della regione limbica e della corteccia frontale, le stesse che vengono influenzate dai farmaci antidepressivi.
Differenze rispetto al farmaco
Tuttavia lo schema non è lo stesso: la psicoterapia causa l'aumento del metabolismo di due aree chiamate ippocampo e cingolo dorsale e una diminuzione dell'attività della corteccia dorsale, mediana e ventrale; un farmaco ampiamente usato come la paroxetina, invece, provoca un aumento del metabolismo nell'area prefrontale e una diminuzione di quello dell'ippocampo e di altre aree. Insomma c'è un effetto organico per entrambe le terapie ma è differente. Secondo gli autori della ricerca, si può dire che la psicoterapia segue un percorso che va "dall'alto al basso", cioè riducendo i pensieri negativi, cosa testimoniata dalla riduzione dell'attività della corteccia, che del pensiero è la sede. Al contrario, quella dei farmaci è un'azione "dal basso verso l'alto", in quanto agiscono sullo stato biochimico del cervello modificando la funzionalità delle aree più legate alle emozioni fondamentali e ai ritmi circadiani. Insomma due strade diverse, probabilmente complementari, per raggiungere il medesimo risultato e per fare un esempio molto semplice è un po' come evitare di far traboccare l'acqua da una vasca: si può aumentare la portata dello scarico oppure ridurre quella del tubo di carico dell'acqua.
Questa, però, non è l'unica implicazione dello studio: gli schemi d'azione differenti potrebbero rendere ragione anche del fatto che non tutte le terapie attuabili per la depressione sono ugualmente efficaci in tutti i pazienti. In più c'è la speranza che questa scoperta, che andrà confermata su campioni più numerosi, consenta anche di controllare l'andamento delle terapie e, in caso di insuccesso, di cambiare approccio. Non solo: dalla valutazione iniziale con la PET, aumentando i dati disponibili, non è escluso che si possa scegliere quale è la terapia più adatta al singolo paziente.
Maurizio Imperiali
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