29 novembre 2017
Interviste, Speciale Vitamina D
Carenza di vitamina D: ecco quando assumere gli integratori
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La vitamina D è un pro-ormone fondamentale per l'ottimale funzionamento del metabolismo minerale ed osseo. Molti studi dimostrano che una sua carenza nell'adulto può comportare aumentati rischi di frattura e di cadute. Sempre più spesso, però, negli ultimi tempi, la vitamina D viene presentata come possibile cura per infezioni, malattie cardiovascolari, tumori, e l'integrazione viene presentata talvolta come positiva anche in persone che teoricamente non ne avrebbero bisogno. Ma è veramente necessario che tutti assumano integratori di vitamina D, ci sono possibili effetti collaterali, e soprattutto, quale è la dose ideale? Dica33 ne ha parlato con Alessandro Rubinacci, Responsabile dell'Unità Osteoporosi e Metabolismo Minerale e Osseo dell'IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.
Dottor Rubinacci, integrare la vitamina D fa bene per tutta una serie di malattie?
«Si stanno proponendo diverse ipotesi, ma studi conclusivi in questo senso non ce ne sono, e i dati andranno ulteriormente approfonditi. La vitamina D è in grado di controllare un ampissimo numero di geni. Fino al 5% del genoma umano sembrerebbe essere modulato dalla Vitamina D. Non meraviglia pertanto che essa sia stata associata a una miriade di malattie. Tuttavia le associazioni osservate non necessariamente implicano rapporti di causa ed effetto. Le ipotesi più recenti sembrerebbero legare la deficienza di vitamina D ad una ridotta capacità delle cellule di difendersi da eventi e prodotti metabolici tossici legati all'invecchiamento. Tuttavia, gli studi non hanno finora dimostrato con inconfutabile chiarezza un beneficio alla somministrazione di vitamina D per ragioni diverse da quelle ossee. Vi è quindi accordo sul fatto che, almeno allo stato attuale delle conoscenze, non ci sia ragione per prescrivere un'integrazione vitaminica D per ragioni diverse da quelle legate all'osteoporosi. Tirando le somme, il fatto che una carenza di questo ormone sia associata a una miriade di malattie non è motivo per somministrarla in chi ne ha già a sufficienza. Le carenze vanno ovviamente corrette».
Quanto è frequente la carenza di vitamina D?
«Più di quanto si possa pensare. La vitamina D deriva dalla nutrizione e dall'esposizione cutanea al sole. La quantità derivante dalla nutrizione è minima: almeno tre-quattro volte inferiore a quella desiderata e si ottiene con una dieta che comprenda nutrienti di origine animale. Quella prodotta dalla cute esposta alla luce solare, anche per pochi minuti al giorno, potrebbe essere sufficiente. Essa è invece ridotta di circa il 50-60% dalle nuvole e dall'inquinamento. Un buon criterio, molto facile da tenere presente per capire se la nostra cute esposta al sole sta sintetizzando vitamina D, è guardare la lunghezza della propria ombra: se più lunga della propria altezza corporea, la sintesi cutanea di vitamina D non avviene. Di conseguenza una fetta ampissima della popolazione che vive nelle nostre città, ancor più se anziani e quindi poco propensi ad uscire, è carente di vitamina D. È quindi importante che i deficit siano individuati e colmati. A prescindere dalle condizioni nutrizionali ed ambientali, esistono delle condizioni cliniche, l'obesità per esempio o delle patologie, che determinano bassi livelli di vitamina D nel sangue. Il ruolo del proprio medico di fiducia o di uno specialista è critico in quanto potrà valutare l'assetto di vitamina D attraverso uno specifico esame del sangue e, nel caso sia insufficiente, integrarlo con dosi che possono variare da soggetto a soggetto. Il fai da te in questo caso è assolutamente da escludere e può essere dannoso».
Quale è la quantità desiderabile di vitamina D in un adulto nella popolazione generale?
«Si tratta di un argomento delicato, e anche nel mondo scientifico ci sono state difformità tra le varie organizzazioni che si occupano di stabilire una soglia. Nel 2010 l'Institute of Medicine statunitense ha stabilito che un livello di 20 ng/mL sia adeguato nella popolazione generale e che livelli superiori non comportino ulteriori benefici. Attualmente anche in Europa è stata confermata questa indicazione. Nella popolazione a rischio o sottoposta a specifici trattamenti è stata proposta una soglia lievemente superiore (30ng/ml), ma su di essa non vi è attualmente accordo».
Per quanto riguarda gli effetti sull'osso invece abbiamo delle certezze?
«Rispetto all'osso il discorso cambia molto perché in questo caso la documentazione è stringente. Valori inferiori a 20 ng/mL si associano a un aumento del rischio di fratture. L'effetto positivo della vitamina D sull'osso è chiaramente dimostrato solo nei soggetti che ne presentano una chiara deficienza e che assumano apporti adeguati del calcio. L'obiettivo deve essere quello di garantire un livello almeno di 20 ng/ml nella popolazione generale e far sì che l'apporto del calcio per via nutrizionale sia adeguato al fabbisogno senza l'uso di supplementi, potenziali latori di rischi».
Si corrono dei rischi se si assume troppa vitamina D?
«Diversi studi hanno documentato che un eccesso di vitamina D si associa a dei rischi per la salute. La relazione tra rischio e beneficio è rappresentata da una relazione ad "U"; ovvero all'aumento della vitamina D nel sangue il rischio per l'osso o per varie patologie si riduce per poi risalire di nuovo al superamento di un determinato valore della vitamina stessa. È stato pertanto definito un intervallo plasmatico di valori desiderabile, compreso tra 20 e 40 ng/mL [per alcuni 50ng/ml] che ottimizzerebbe i benefici legati alla somministrazione di vitamina D e ne eviterebbe i rischi. L'eventuale effetto negativo dipende peraltro anche da come si ripristina e si mantiene l'intervallo desiderabile. Già dal 2007-2009 è stato osservato che somministrare grandi quantità di vitamina D in una dose unica espone a rischi paradossi di fratture e/o di cadute. Le nuove linee guida sconsigliano proprio per questo motivo l'utilizzo di boli di vitamina D che peraltro non presentano gli stessi effetti positivi della somministrazione giornaliera o settimanale di dosi fisiologiche».
L'indicazione della dose quindi deve essere personalizzata?
«Certamente sì, il medico non può prescrivere al buio. In genere si ritiene che 600-800 UI somministrate giornalmente o 5.600 UI somministrate una volta alla settimana siano sufficienti a correggere un deficit di vitamina D e a mantenerne un livello adeguato in un soggetto adulto. Occorre tuttavia ricordare che ci sarà sempre qualcuno che risponderà in modo insufficiente o esagerato alla supplementazione standard, per una miriade di fattori interferenti individuali o ambientali. Solo il medico sarà in grado di capire quale sia la giusta integrazione e di verificare poi che essa sia sufficiente a ripristinare e mantenere il livello desiderato».
Susanna Guzzetti
Dottor Rubinacci, integrare la vitamina D fa bene per tutta una serie di malattie?
«Si stanno proponendo diverse ipotesi, ma studi conclusivi in questo senso non ce ne sono, e i dati andranno ulteriormente approfonditi. La vitamina D è in grado di controllare un ampissimo numero di geni. Fino al 5% del genoma umano sembrerebbe essere modulato dalla Vitamina D. Non meraviglia pertanto che essa sia stata associata a una miriade di malattie. Tuttavia le associazioni osservate non necessariamente implicano rapporti di causa ed effetto. Le ipotesi più recenti sembrerebbero legare la deficienza di vitamina D ad una ridotta capacità delle cellule di difendersi da eventi e prodotti metabolici tossici legati all'invecchiamento. Tuttavia, gli studi non hanno finora dimostrato con inconfutabile chiarezza un beneficio alla somministrazione di vitamina D per ragioni diverse da quelle ossee. Vi è quindi accordo sul fatto che, almeno allo stato attuale delle conoscenze, non ci sia ragione per prescrivere un'integrazione vitaminica D per ragioni diverse da quelle legate all'osteoporosi. Tirando le somme, il fatto che una carenza di questo ormone sia associata a una miriade di malattie non è motivo per somministrarla in chi ne ha già a sufficienza. Le carenze vanno ovviamente corrette».
Quanto è frequente la carenza di vitamina D?
«Più di quanto si possa pensare. La vitamina D deriva dalla nutrizione e dall'esposizione cutanea al sole. La quantità derivante dalla nutrizione è minima: almeno tre-quattro volte inferiore a quella desiderata e si ottiene con una dieta che comprenda nutrienti di origine animale. Quella prodotta dalla cute esposta alla luce solare, anche per pochi minuti al giorno, potrebbe essere sufficiente. Essa è invece ridotta di circa il 50-60% dalle nuvole e dall'inquinamento. Un buon criterio, molto facile da tenere presente per capire se la nostra cute esposta al sole sta sintetizzando vitamina D, è guardare la lunghezza della propria ombra: se più lunga della propria altezza corporea, la sintesi cutanea di vitamina D non avviene. Di conseguenza una fetta ampissima della popolazione che vive nelle nostre città, ancor più se anziani e quindi poco propensi ad uscire, è carente di vitamina D. È quindi importante che i deficit siano individuati e colmati. A prescindere dalle condizioni nutrizionali ed ambientali, esistono delle condizioni cliniche, l'obesità per esempio o delle patologie, che determinano bassi livelli di vitamina D nel sangue. Il ruolo del proprio medico di fiducia o di uno specialista è critico in quanto potrà valutare l'assetto di vitamina D attraverso uno specifico esame del sangue e, nel caso sia insufficiente, integrarlo con dosi che possono variare da soggetto a soggetto. Il fai da te in questo caso è assolutamente da escludere e può essere dannoso».
Quale è la quantità desiderabile di vitamina D in un adulto nella popolazione generale?
«Si tratta di un argomento delicato, e anche nel mondo scientifico ci sono state difformità tra le varie organizzazioni che si occupano di stabilire una soglia. Nel 2010 l'Institute of Medicine statunitense ha stabilito che un livello di 20 ng/mL sia adeguato nella popolazione generale e che livelli superiori non comportino ulteriori benefici. Attualmente anche in Europa è stata confermata questa indicazione. Nella popolazione a rischio o sottoposta a specifici trattamenti è stata proposta una soglia lievemente superiore (30ng/ml), ma su di essa non vi è attualmente accordo».
Per quanto riguarda gli effetti sull'osso invece abbiamo delle certezze?
«Rispetto all'osso il discorso cambia molto perché in questo caso la documentazione è stringente. Valori inferiori a 20 ng/mL si associano a un aumento del rischio di fratture. L'effetto positivo della vitamina D sull'osso è chiaramente dimostrato solo nei soggetti che ne presentano una chiara deficienza e che assumano apporti adeguati del calcio. L'obiettivo deve essere quello di garantire un livello almeno di 20 ng/ml nella popolazione generale e far sì che l'apporto del calcio per via nutrizionale sia adeguato al fabbisogno senza l'uso di supplementi, potenziali latori di rischi».
Si corrono dei rischi se si assume troppa vitamina D?
«Diversi studi hanno documentato che un eccesso di vitamina D si associa a dei rischi per la salute. La relazione tra rischio e beneficio è rappresentata da una relazione ad "U"; ovvero all'aumento della vitamina D nel sangue il rischio per l'osso o per varie patologie si riduce per poi risalire di nuovo al superamento di un determinato valore della vitamina stessa. È stato pertanto definito un intervallo plasmatico di valori desiderabile, compreso tra 20 e 40 ng/mL [per alcuni 50ng/ml] che ottimizzerebbe i benefici legati alla somministrazione di vitamina D e ne eviterebbe i rischi. L'eventuale effetto negativo dipende peraltro anche da come si ripristina e si mantiene l'intervallo desiderabile. Già dal 2007-2009 è stato osservato che somministrare grandi quantità di vitamina D in una dose unica espone a rischi paradossi di fratture e/o di cadute. Le nuove linee guida sconsigliano proprio per questo motivo l'utilizzo di boli di vitamina D che peraltro non presentano gli stessi effetti positivi della somministrazione giornaliera o settimanale di dosi fisiologiche».
L'indicazione della dose quindi deve essere personalizzata?
«Certamente sì, il medico non può prescrivere al buio. In genere si ritiene che 600-800 UI somministrate giornalmente o 5.600 UI somministrate una volta alla settimana siano sufficienti a correggere un deficit di vitamina D e a mantenerne un livello adeguato in un soggetto adulto. Occorre tuttavia ricordare che ci sarà sempre qualcuno che risponderà in modo insufficiente o esagerato alla supplementazione standard, per una miriade di fattori interferenti individuali o ambientali. Solo il medico sarà in grado di capire quale sia la giusta integrazione e di verificare poi che essa sia sufficiente a ripristinare e mantenere il livello desiderato».
Susanna Guzzetti
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