Dal microbiota, prospettive di cura e prevenzione del diabete
Dott. Fornengo, quanto è oggi noto sul microbiota e le sue funzioni?
Siamo ancora in qualche modo agli albori delle conoscenze. Sappiamo che ha una serie di funzioni fondamentali e probabilmente diventerà il fulcro delle terapie nei prossimi decenni, appena riusciremo a capire esattamente come esaminarlo, dosarlo, cambiarlo, in quanto sicuramente è implicato in patologie quali obesità, diabete, ipertensione e quasi certamente in altre malattie croniche. Un conto è ciò che noi mangiamo, un conto è quanto il microbiota trasforma e ci permette di assorbire.
Che cosa emerge da questo studio?
Due notizie basilari. La prima è che il cambiamento della dieta - basato soltanto su pane bianco o su un pane artigianale fatto con pasta madre e farine particolari somministrato per un certo periodo - non basta a cambiare il microbiota in modo stabile. Ciò, secondo gli autori, conferma la sua notevole resistenza al cambiamento. Una caratteristica, questa, già evidenziata in molti studi, che può costituire sia un vantaggio sia uno svantaggio: un microbiota favorevole potrebbe resistere agli insulti esterni e del tempo, mentre diventerebbe difficile cambiare un pessimo microbiota. Però, aggiungono gli autori, dare il pane bianco o quello artigianale con specifiche caratteristiche non cambia determinati parametri, ma fa emergere che alcuni di questi variano soltanto in certi soggetti e che anche la risposta glicemica muta a seconda delle persone. Già un altro studio molto importante del 2015 aveva evidenziato come, a parità di cibo somministrato, la risposta glicemica non era univoca, ma individuale a seconda del microbiota presente.
Questo cambia la visione della gestione del diabete?
Nettamente. Per anni siamo stati abituati a impostare un certo tipo di alimentazione. Poi siamo passati al concetto del cibo integrale e biologico. Negli ultimi anni abbiamo fatto nostra la visione di Slow Food, basata sulla qualità del cibo, sulla sua tracciabilità, su corretti allevamenti e coltivazioni, sulla riduzione dell'uso della chimica in modo sconsiderato, sul problema dell'industrializzazione del cibo. A questo punto, però, bisognerebbe passare non solo a un discorso di qualità del cibo, ma anche di personalizzazione. Questi studi dimostrano cioè che abbiamo bisogno ancora di ulteriori ricerche e conferme, ma che non possiamo limitarci a migliorare il tipo di alimenti: si deve piuttosto puntare a una "super-personalizzazione" non soltanto della terapia medica, ma anche della dieta, specificando persona per persona che cosa è salutare o nocivo partendo dall'analisi del microbiota, conoscendone i ceppi e sapendo come rispondono agli alimenti.
Che cosa si può prospettare per il futuro?
Si sta identificando tutta una serie di ceppi - ma ci sono tuttora molti problemi nel capire le reciproche interferenze - per identificare a grandi linee cos'è un microbiota sano e uno patologico. In realtà, dobbiamo ancora capire se vi è e come è la normalità del microbiota, definirne i parametri nella popolazione e, all'interno di quest'ultima, stabilire le capacità di risposta in quanto, per il momento, non abbiamo possibilità di influenzare il microbiota se non a grandi linee. Attualmente il principale intervento sul microbiota è il trapianto fecale, che si effettua nelle infezioni antibiotico-resistenti del Clostridium difficile. Esistono poi situazioni in cui il microbiota viene sconvolto - come interventi chirurgici sull'intestino, patologie intestinali, particolari terapie con antibiotici - tutte condizioni in cui la resilienza del microbiota non è sufficiente per non subire cambiamenti definitivi. Ora la sfida è comprendere, capire il microbiota e un domani poter "governare" le sue modificazioni correggendo le derive "non salutari" per il nostro organismo, al fine di avere ulteriori armi per la cura di patologie come il diabete, l'obesità o, addirittura, potere prevenirne l'insorgenza.
Fonte: Doctor33
Bibliografia
Cell Metab, 2017;25(6):1243-53.e5
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28591632
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