27 settembre 2016
Aggiornamenti e focus
Donne in carriera: quando il lavoro diventa un’ossessione
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Le donne che lavorano sono in aumento esponenziale nel mondo occidentale e così anche in Italia, nonostante nel nostro Paese siano ancora vittime di condizioni salariali svantaggiose rispetto agli uomini. A parità di ruolo, infatti, si parla di un divario del 30 per cento che ovviamente rende il quadro generale molto complesso e l'argomento assai delicato.
L'emancipazione femminile ha portato a delle conseguenze non solo nella percezione che la donna ha di sé, ma anche nei rapporti interpersonali tra i due sessi e soprattutto nella gestione delle dinamiche familiari. In altre epoche era normale e socialmente accettato scegliere tra fare un figlio o perseguire gli obiettivi di carriera, ma oggi si cerca di conciliare i due aspetti, anche a costo di rovinare la propria salute, sia mentale che fisica.
In un'intervista al quotidiano La Repubblica, la ministra delle finanze lettone, Dana Reizniece-Ozola, 34enne mamma di quattro figli, ha parlato del suo "segreto" del successo sia nella vita privata che nel lavoro, senza far mistero della grande fatica che dietro vi si cela. «Penso che il mio segreto sia la disciplina che mi ha dato la vita sportiva e che ha formato il mio carattere fin dall'infanzia». Campionessa di scacchi, ha riversato le tecniche apprese con questa passione nella sua esperienza quotidiana: «Gli scacchi mi aiutano a mantenere l'equilibrio nella vita». Ebbene, è questa "parola magica" - equilibrio - uno dei metri con cui la psicologia moderna valuta i limiti entro i quali un'abitudine diventa una patologia mentale. Su questo tema, sempre Ozola ha spiegato che non è facile trovare il giusto bilanciamento e che tanti anni fa si era trovata a puntare tutto sulla carriera ma che la sua qualità della vita e soprattutto la sua efficienza anche nel business erano calate notevolmente: «Dopo un po' mi sono resa conto che non leggevo un libro da due anni».
Sono tanti i casi di donne che settano la propria vita solo sull'agenda di lavoro - le cosiddette workaholic - e che arrivano a sentirsi in colpa quando non sono all'opera tra computer e riunioni. È il mito contemporaneo del funzionalismo e della produttività, che vede donne (e uomini) fintamente liberi ma in realtà schiavi della "sindrome del bottino", come qualcuno l'ha definita. Il perfezionismo che soggiace al carrierismo sfrenato e in particolare al loop lavorativo in cui tante signore e mamme sono invischiate, somiglia molto a quello che spinge le anoressiche ad alimentarsi entro un severo regime, non potendo sgarrare pena un profondo - come dicevamo prima - senso di colpa.
In un'intervista a D, inserto del sabato di Repubblica, Andrea Castiello D'Antonio, psicoterapeuta, psicologo clinico e del lavoro, ha spiegato che «essere sempre connessi può dare un senso di potenza o di euforia alla persona, senso che rinforza la già esistente, o incipiente, dipendenza da lavoro».
A questo in più va aggiunto che questo tipo di ossessione è positivamente accettata dalla società e spesso è vista come un pregio. Le donne che la nutrono, non riescono a godere del momento presente ma sono costantemente proiettate sul futuro in un perenne senso di frustrazione. La tecnologia che ogni giorno si fa maggiormente pervasiva, infine, si posa come ciliegina sulla torta obbligandoci a una connessione costante che ingigantisce le sensazioni negative e i sensi di colpa.
E sulle lavoratici con prole cosa dire? Sul portale Donna Web scopriamo che uno studio su questo tema è stato effettuato dalla Michigan State University e pubblicato sulla rivista American Sociological Review,«il quale ha ampiamente mostrato la difficile condizione della mamma che lavora in base alle diverse incombenze e responsabilità che si concentrano sulla sua persona. Inoltre, anche se i mariti e i papà si sono evoluti rispetto agli anni 70, continuano a contribuire molto poco, per questo motivo sarebbe molto utile se anche loro si prendessero carico di alcune incombenze in maniera abituale e non solo quando la mamma non può».
Maria Elena Capitanio
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