La placca non è il peggio

22 novembre 2002
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La placca non è il peggio



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La spiegazione corrente dei meccanismi della malattia di Alzheimer è quella della distruzione dei neuroni, soprattutto in alcune aree cerebrali, dovuta a due formazioni patologiche: le placche contenenti la proteina beta-amiloide e i grovigli neurofibrillari contenenti la proteina tau, due sostanze presenti fisiologicamente nel cervello.
Tuttavia questa spiegazione è un po' troppo semplice e, forse, potrebbe essere addirittura un ostacolo alla ricerca di una cura. Ed è grazie alla biologia molecolare e alla maggiore conoscenza dei meccanismi più fini del funzionamento del cervello che si sta giungendo a questa conclusione.

I depositi di amiloide non sono tutto


Infatti, la formazione di placche e grovigli è un reperto che viene localizzato, negli esami post mortem, quando la malattia è progredita fino alla sua massima espressione (la demenza). Ma se si va a esaminare il cervello delle persone morte per altre cause quando già presentavano i primi sintomi della malattia, cioè perdite della memoria a breve termine, si vede che mentre non si trovano né placche né grovigli e neppure la morte del neurone, si riscontrano comunque sottili alterazioni delle sinapsi. Non bastasse, recentemente si è visto che anche nelle autopsie dei malati in stadio avanzato, i deficit cognitivi che presentavano non erano proporzionali alla presenza di placche o grovigli, e nemmeno alla perdita di neuroni quanto proprio a queste alterazioni delle sinapsi.

L'Alzheimer stacca la spina


La sinapsi è una struttura della cellula nervosa che può essere considerata come un connettore SCART del televisore: ci sono tanti piedini, che vanno a infilarsi in altrettanti fori e su ciascun piedino passa un segnale diverso (audio, video, sincronizzazione...). Lo stesso, o quasi, nel cervello: perché tutti i segnali passino, tutti i piedini della sinapsi devono essere collegati. Nelle analisi dei tessuti cerebrali dei pazienti colpiti dall'Alzheimer si è osservata una sostanziosa diminuzione degli enzimi che servono alla metabolizzazione dell'acetilcolina, e anche se questo non è il solo neurotrasmettitore coinvolto nella malattia, le lesioni avanzate si trovano proprio nelle aree del cervello (l'ippocampo per esempio) dove predominano le sinapsi che dipendono da questo neurotrasmettitore (colinergiche, appunto). Tornando all'esempio del connettore, l'acetilcolina è uno dei piedini e la beta amiloide gli impedisce di condurre il segnale.

A che cosa serve sperimentare sull'animale

Per sviluppare questi spunti ci si è basati sui topi transgenici, cioè su animali nei quali siano stati trasferiti i geni che inducono la produzione del cosiddetto precursore della beta-amiloide e della proteina tau chiamato APP, e nei quali siano indotte altre mutazioni collegate all'insorgenza della malattia. Il vantaggio dell'uso del topo, ovviamente, è che è possibile procedere all'esame del tessuto a diversi stadi della progressione della malattia.
Gli studi così condotti sono ormai parecchi. Per esempio, è stato dimostrato che i deficit cognitivi correlano più dai livelli di beta amiloide libera (quindi capaci di interagire con le sinapsi) che non dalla presenza dei depositi; inoltre, è stato possibile anche stabilire che non tutta la beta-amiloide è cattiva allo stesso modo. Infatti, paiono essere gli oligomeri solubili della proteina il determinante delle disfunzioni. Questo lo si è provato misurando, anche nell'uomo, i livelli di queste piccole molecole mettendoli in relazione con i deficit mostrati. Ma c'è stata anche un'altra conferma: iniettando nel topo "malato" sostanze in grado di inibire soprattutto la formazione degli oligomeri, si è visto che la funzionalità delle sinapsi non veniva intaccata, anche se era presente una discreta quantità delle altre frazioni della beta-amiloide. Anche in questo caso si interveniva su enzimi, la gamma secretasi, che intervengono nel passaggio dalla PPA alla proteina amiloide.

Sì, bello, ma la cura?

Ovviamente da questi risultati nella cavia alla cura per l'uomo il passo non è breve. Ma nemmeno incolmabile. Già ci sono perlomeno due vie da seguire. La prima sta nell'indurre geneticamente una diminuzione dei livelli liberi di beta-amiloide. Sempre nel topo, sono stati incrociati animali transgenici destinati a sviluppare la malattia con altri portatori di una inattivazione (blocco) del gene che codifica per la presenilina 1. Questo gene è responsabile tra l'altro del funzionamento della gamma-secretasi, l'enzima che, come già detto, è indispensabile per la produzione della beta-amiloide. Da questo incrocio sono nati topi che non hanno sviluppato deficit di memoria, quindi sani.
Ancora più promettente, però, è stato l'impiego di anticorpi che vanno ad attaccare la beta-amiloide una volta iniettati nel cervello. Queste sostanze sono state provate in topi anziani che avevano sia i sintomi (perdita di memoria provata dal mancato riconoscimento di oggetti) sia le placche: nell'arco di una nottata il deficit di memoria si è praticamente risolto, anche se le placche sono rimaste immutate. L'azione c'è stata, dunque, ma solo sui meccanismi che interferiscono con le sinapsi. Ergo, il bersaglio non è la placca, ma l'amiloide solubile, e qualcosa si potrà ben fare anche nell'uomo. Il tutto grazie alle neuroscienze. E al topo, naturalmente.

Maurizio Imperiali

Fonte

Selkoe DJ. Alzheimer's Disease Is a Synaptic Failure. Science. 2002 Oct 25;298(5594):789-91.



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