02 aprile 2008
Aggiornamenti e focus
Timidi da curare?
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Il DSM-IV, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, parla chiaro e lascia pochi margini alla definizione delle malattie mentali e fin dalla prima edizione che risale al 1952 è stato adottato come riferimento da medici e psichiatri. Tra le 347 categorie patologiche incluse nell'ultima edizione viene riportato il disturbo da ansia sociale o fobia sociale (inclusa anche nell'International Classification of Diseases 10 - ICD-10), una costellazione di sintomi che girano intorno alla difficoltà profonda di relazionarsi con gli altri accompagnata da attacchi di panico da agorafobia (paura dei luoghi aperti) e da altre fobie specifiche.
Le persone che ne soffrono temono e evitano il giudizio degli altri, sono molto timide in occasione di nuovi incontri, silenziose quando in gruppo e tendono a isolarsi in circostanze sociali che non sono loro familiari. Quando interagiscono con gli altri possono mostrare un evidente disagio, arrossiscono, evitano il contatto di sguardi e avvertono sensazioni fisiche ed emotive molto intense come paura, sudore, accelerazione del battito cardiaco, tremore, preoccupazione. Sono persone che desiderano la compagnia degli altri, ma poi la evitano sottraendosi a situazioni di socialità per paura di essere noiosi, banali e sgradevoli. Non parlano in pubblico, non esprimono opinioni, e non stringono amicizie al punto di essere presi per snob. Dal punto di vista psichiatrico il quadro clinico si completa con una bassa autostima, forte auto-critica e sintomi depressivi. I sintomi possono iniziare a mostrarsi durante l'infanzia e nella prima adolescenza, spesso sono anche motivo di rifiuto della scuola che si traduce in abbandono prematuro degli studi. La fobia sociale è spesso presente in chi soffre di malattie croniche, cosa che va ad aumentare le disabilità funzionali.
La posizione degli psichiatri sul disturbo da ansia, dettata dalle indicazioni dei manuali diagnostici, non è passata indenne alla critica di chi non è d'accordo sul tracciare, per alcuni comportamenti, una linea così netta tra ciò che è normale e ciò che non lo è. Un punto di vista decisamente opposto è molto chiaro nel titolo di un libro, recensito sulle pagine di Lancet "Timidezza: quando un comportamento normale diventa una malattia". L'autore della recensione, un epidemiologo dell'Institute of Psychiatry del King's College di Londra, in accordo con lo scrittore, fa notare che la timidezza è stata inclusa come fobia sociale o disturbo di personalità evitante, solo nella terza edizione del DSM, nel 1987. "Prima le persone timide - spiega - erano considerate introverse ma non mentalmente malate, mentre ora provare imbarazzo nel mangiare da soli al ristorante o temere il confronto con figure autoritarie è considerato un aspetto del disturbo da ansia". L'origine di questo slittamento teorico e clinico, viene addebitata anche alla pressione delle aziende farmaceutiche, in rapporto al sistema americano di rimborso delle spese mediche tramite assicurazioni private: "Tratta un paziente per timidezza e l'assicurazione riderà di te - sostiene l'epidemiologo inglese - trattalo per la fobia sociale, con convalida del DSM e l'assicurazione pagherà". La critica, in sostanza, è centrata sull'etichettatura di un tratto caratteriale di una persona come potenziale o possibile patologia. Ma gli esperti chiamati in causa, rispondono che la timidezza non è né un precursore, un requisito, né un sinonimo di disturbo. E fanno notare che sono molto pochi i bambini timidi la cui timidezza persiste anche nell'adolescenza e nell'età adulta e poi si manifesta come ansia o fobia sociale, e che solo il 50% degli adulti con il disturbo riportano di aver sofferto eccessiva timidezza nell'infanzia. E infine ribadiscono, in un articolo pubblicato sempre da Lancet, che la timidezza è un tratto comune della personalità non considerato di per séA? patologico ma solo se combinato con altri fattori che generano un effetto sfavorevole. Il dibattito resta, per ora, non risolto lasciando aperto un problema filosofico ma anche di sostanza anzi di uso di sostanze, sia pure farmacologiche.
Simona Zazzetta
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Via dalla pazza folla
Le persone che ne soffrono temono e evitano il giudizio degli altri, sono molto timide in occasione di nuovi incontri, silenziose quando in gruppo e tendono a isolarsi in circostanze sociali che non sono loro familiari. Quando interagiscono con gli altri possono mostrare un evidente disagio, arrossiscono, evitano il contatto di sguardi e avvertono sensazioni fisiche ed emotive molto intense come paura, sudore, accelerazione del battito cardiaco, tremore, preoccupazione. Sono persone che desiderano la compagnia degli altri, ma poi la evitano sottraendosi a situazioni di socialità per paura di essere noiosi, banali e sgradevoli. Non parlano in pubblico, non esprimono opinioni, e non stringono amicizie al punto di essere presi per snob. Dal punto di vista psichiatrico il quadro clinico si completa con una bassa autostima, forte auto-critica e sintomi depressivi. I sintomi possono iniziare a mostrarsi durante l'infanzia e nella prima adolescenza, spesso sono anche motivo di rifiuto della scuola che si traduce in abbandono prematuro degli studi. La fobia sociale è spesso presente in chi soffre di malattie croniche, cosa che va ad aumentare le disabilità funzionali.
Introversi non malati
La posizione degli psichiatri sul disturbo da ansia, dettata dalle indicazioni dei manuali diagnostici, non è passata indenne alla critica di chi non è d'accordo sul tracciare, per alcuni comportamenti, una linea così netta tra ciò che è normale e ciò che non lo è. Un punto di vista decisamente opposto è molto chiaro nel titolo di un libro, recensito sulle pagine di Lancet "Timidezza: quando un comportamento normale diventa una malattia". L'autore della recensione, un epidemiologo dell'Institute of Psychiatry del King's College di Londra, in accordo con lo scrittore, fa notare che la timidezza è stata inclusa come fobia sociale o disturbo di personalità evitante, solo nella terza edizione del DSM, nel 1987. "Prima le persone timide - spiega - erano considerate introverse ma non mentalmente malate, mentre ora provare imbarazzo nel mangiare da soli al ristorante o temere il confronto con figure autoritarie è considerato un aspetto del disturbo da ansia". L'origine di questo slittamento teorico e clinico, viene addebitata anche alla pressione delle aziende farmaceutiche, in rapporto al sistema americano di rimborso delle spese mediche tramite assicurazioni private: "Tratta un paziente per timidezza e l'assicurazione riderà di te - sostiene l'epidemiologo inglese - trattalo per la fobia sociale, con convalida del DSM e l'assicurazione pagherà". La critica, in sostanza, è centrata sull'etichettatura di un tratto caratteriale di una persona come potenziale o possibile patologia. Ma gli esperti chiamati in causa, rispondono che la timidezza non è né un precursore, un requisito, né un sinonimo di disturbo. E fanno notare che sono molto pochi i bambini timidi la cui timidezza persiste anche nell'adolescenza e nell'età adulta e poi si manifesta come ansia o fobia sociale, e che solo il 50% degli adulti con il disturbo riportano di aver sofferto eccessiva timidezza nell'infanzia. E infine ribadiscono, in un articolo pubblicato sempre da Lancet, che la timidezza è un tratto comune della personalità non considerato di per séA? patologico ma solo se combinato con altri fattori che generano un effetto sfavorevole. Il dibattito resta, per ora, non risolto lasciando aperto un problema filosofico ma anche di sostanza anzi di uso di sostanze, sia pure farmacologiche.
Simona Zazzetta
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