11 novembre 2013
Aggiornamenti e focus
Sindrome di Down: rivoluzionare l'approccio per dare un futuro a chi ne è colpito
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Obiettivo: cambiare il modo di considerare la sindrome di Down. «Perché», spiega Giorgio Albertini, direttore del dipartimento di Scienze delle disabilità congenite ed evolutive, motorie e sensoriali dell'Ircss San Raffaele Pisana di Roma che ha organizzato a Roma un congresso internazionale sulla Sindrome di Down, «è indispensabile partire da due aspetti fondamentali della ricerca internazionale: in primo luogo non considerare più solo il bambino nella prospettiva del suo diventare adolescente, adulto e, oggi, anche anziano; secondariamente, è necessario sviluppare una mentalità multidimensionale».
La Sindrome di Down, anche detta Trisomia 21, è una condizione cromosomica causata dalla presenza di tutta o di parte di una terza copia del cromosoma 21 ed è la più comune anomalia cromosomica nell'uomo. Secondo alcune ricerche, in Italia ci sono circa 38.000 persone con la sindrome di Down di cui il 61 per cento ha più di 25 anni. E un bambino su 1.200 ne nasce affetto. Le anomalie cromosomiche interessano circa il 9 per cento di tutti i concepimenti, ma solo lo 0,6 per cento ne presenta una alla nascita a causa dell'altissimo tasso di aborti spontanei.
Grazie allo sviluppo della medicina e alle maggiori cure la durata della vita delle persone colpite da questa sindrome si è molto allungata: oggi si può parlare di un'aspettativa di vita di 62 anni, destinata ulteriormente a crescere in futuro.
Sviluppare nuovi modelli per relazionarsi con i malati significa osservare una persona sotto i suoi molteplici aspetti: l'aspetto biomedico, l'aspetto dello sviluppo motorio, l'azione comunicativo-linguistica, lo sviluppo cognitivo che comprende anche le funzioni neuro psicologiche di base, la salute mentale.
«Altro obiettivo», spiega ancora Albertini, «è quello di abbattere i luoghi comuni: ogni bambino down nasce con un suo patrimonio neuronale, ed è immerso nell'ambiente della sua famiglia, della scuola, del percorso riabilitativo, dell'integrazione sociale».
Nuovo approccio significa anche analizzare il rapporto tra cervello (inteso come genetica) e ambiente, tenendo presente che il cervello dell'uomo è programmato per lasciarsi condizionare positivamente o negativamente dal contesto in cui si trova: per questo l'ambiente è ormai quasi più importante delle terapie farmacologiche.
Purtroppo a tutt'oggi non sappiamo ancora con precisione a cosa siano dovute le alterazione cromosomiche che portano alla sindrome di Down. Si ritiene che l'insorgenza delle anomalie cromosomiche sia un fenomeno "naturale", in qualche modo legato alla fisiologia della riproduzione umana. Le ricerche dicono che il principale fattore di rischio è l'età materna al momento del concepimento. Nel 1998 è stata calcolato da Bray in queste fasce di probabilità il rischio:
ETÀ MATERNA | RISCHIO | |
16-20 anni | 1 su 1472 | |
21-25 anni | 1 su 1350 | |
26-30 anni | 1 su 1016 | |
31-35 anni | 1 su 516 | |
36-40 anni | 1 su 173 | |
41-45 anni | 1 su 47 | |
over 45 anni | 1 su 12 |
Lo sviluppo del bambino con sindrome di Down avviene con un certo ritardo, ma secondo le stesse tappe degli altri bambini. Avranno semplicemente tempi più lunghi per imparare a camminare, parlare, giocare... Dal punto di vista riabilitativo non si tratta di compensare o recuperare una particolare funzione, quanto di organizzare un intervento educativo globale che favorisca la crescita e lo sviluppo del bambino in una interazione dinamica tra le sue potenzialità e l'ambiente circostante. Questo significa che bisogna sempre avere presente il principio che ogni bambino è diverso dall'altro e necessita quindi di interventi che rispettino ogni individualità e i diversi tempi.
Fino a pochi anni fa l'idea più diffusa sulle persone con sindrome di Down era quella di considerarle persone ritardate mentalmente. Oggi la pratica quotidiana dimostra come sia possibile una vita autonoma anche per chi è affetto dalla sindrome. Qualcosa dunque sta cambiando. La maggior parte dei bambini con sindrome di Down, se l'ambiente intorno a lui ha la capacità di promuoverne lo sviluppo, può raggiungere un buon livello di autonomia personale, imparare a curare la propria persona, a cucinare, a uscire e fare acquisti. Avere cioè una vita propria. Non ci sono dati statistici sul numero delle persone con sindrome di Down che lavorano, ma, anche se la legislazione attuale non ne favorisce adeguatamente l'avvio, grazie all'impegno di operatori e, soprattutto, delle famiglie, si stanno moltiplicando i casi di esperienze positive nel mondo del lavoro. Ora si tratta di trovare il supporto delle istituzioni: l'importanza della ricerca non è soltanto in campo biomedico ma anche nel campo riabilitativo, in modo da ridurre il gap tra le conoscenze teoriche e gli spazi applicativi.
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