18 maggio 2015
Interviste, Speciale tumore al seno
Mammografia, l’esperto: sì allo screening, ma occhio al trattamento eccessivo
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La mammografia è stata al centro di un'accesa polemica mediatica suscitata nei giorni scorsi da Beppe Grillo. Poiché si tratta di una misura di prevenzione del tumore del seno raccomandata con cadenza biennale a tutte le donne tra i 50 e i 69 anni, Dica33 ha voluto fare il punto con Pierfranco Conte, docente di oncologia all'Università di Padova e primario del reparto di oncologia medica dell'Istituto oncologico veneto.
Professor Conte, Beppe Grillo ha messo in discussione l'opportunità della mammografia e ha parlato di una riduzione di mortalità del 2 per mille, ovvero due donne salvate ogni 1.000 mammografie: è corretto? È poco o tanto?
«Non è facile dire esattamente quante donne vengono salvate ogni anno grazie alla mammografia: certo rispetto a quanto si sperava inizialmente è oggi chiaro che lo screening di popolazione con la mammografia sta dando risultati meno favorevoli. D'altra parte un tempo si pensava che il tumore alla mammella fosse un'unica malattia, mentre oggi sappiamo che si presenta in tante forme diverse, che stiamo imparando a distinguere, e che sono più o meno gravi e più o meno curabili».
Quindi secondo lei occorre rivedere le raccomandazioni che invitano tutte le donne tra i 50 e i 69 anni a effettuare la mammografia ogni due anni?
«No, personalmente sono convinto che valga senz'altro la pena raccomandare lo screening biennale, in questa fascia di età, perché complessivamente grazie alla mammografia siamo riusciti non solo a ridurre la mortalità - anche se in misura inferiore alle attese - ma anche a ridurre le dimensioni medie del tumore alla diagnosi e quindi la necessità di chirurgia radicale della mammella. Inoltre è diminuita la proporzione di casi con interessamento dei linfonodi ascellari, e questo ha reso sempre meno necessario lo svuotamento del cavo ascellare, con tutte le complicanze associate».
Quindi si tratta di un esame poco invasivo e poco costoso che non comporta rischi?
«Sì e no. Mi spiego meglio: in sé la mammografia presenta un costo modesto per il servizio sanitario e un impegno limitato per la donna, con una procedura innocua, però non bisogna dimenticare che in molti casi può fornire un risultato ambiguo, e spingere a trattare anche forme tumorali che avrebbero potuto restare innocue a tempo indefinito, senza dare sintomi e senza esporre ad alcun rischio. D'altra parte, quando viene effettuata ogni due anni spesso non è in grado di intercettare i tumori più aggressivi, che hanno un'evoluzione più rapida e la prognosi peggiore.
C'è stata in passato un'enfasi trionfalistica sullo screening mammografico, di cui oggi conosciamo meglio anche i limiti. Il pericolo vero cui espone è quello che in inglese si chiama overtreatment, ovvero eccesso di terapie: se è vero che grazie alla diffusione della mammografia sono stati ottenuti i risultati di cui si diceva, è anche vero purtroppo che sono aumentati molto gli interventi chirurgici anche per tante lesioni neoplastiche che a posteriori sappiamo che, nella maggioranza dei casi, non avrebbero sviluppato un tumore clinicamente rilevante, restando innocue».
Per questo non viene raccomandato alle donne più giovani e alle ultrasettantenni?
«La decisione di limitare la raccomandazione, nella popolazione generale, alle donne di età compresa tra 50 e 69 anni nasce proprio dalla valutazione complessiva dei pro e dei contro, diversi anche in funzione dell'invecchiamento dei tessuti della mammella. Poi ci sono donne ad alto rischio, perché presentano una familiarità e una mutazione dei geni Brca1 e Brca2, in cui la mammografia è inutile, ma servirebbe uno screening con risonanza magnetica a partire dai 30 anni, in virtù del rischio molto superiore alla media. Secondo la mia opinione personale, nelle donne più giovani è utile valutare il profilo individuale: stile di vita, quadro endocrino, numero di figli, familiarità, ma non ha senso una campagna generalizzata. Questo si fa per esempio nelle breast unit,unità per il seno».
Lei dirige la breast unit, l'unità per il seno, di Padova. Può dirci di che cosa si tratta?
«È un modello organizzativo nuovo che rappresenta l'unica risposta adeguata alle difficoltà poste dalla prevenzione e terapia del tumore della mammella, e che si sta affermando in tutta Italia, a partire da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Per assicurare assistenza e terapia ottimali occorre il contributo di numerosi specialisti, con un elevato livello di competenza: dall'oncologo medico, al chirurgo, allo psicologo, al genetista al radiologo al patologo molecolare. Il loro coinvolgimento fin dall'inizio del percorso diagnostico, al primo sospetto di tumore della mammella, garantisce l'eccellenza clinica e l'appropriatezza, limitando al massimo il rischio di esami e interventi inutili.
La Regione Veneto ha attivato da tempo una rete oncologica regionale in cui operano numerose breast unit specializzate, che concordano percorsi e criteri da condividere a livello regionale e nazionale, coordinate da quella di Padova».
Fabio Turone
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