22 febbraio 2018
Aggiornamenti e focus, Speciale Estate
Cuore e montagna, relazione pericolosa
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Le escursioni in alta quota -al di sopra dei 2.500 metri- possono essere pericolose per chi è affetto da malattie cardiache, vascolari o polmonari. Tali situazioni infatti richiedono all'organismo, già indebolito dalla patologia di base, un eccessivo sforzo di adattamento per compensare la rarefazione dell'aria dovuta alla riduzione della pressione atmosferica.
Nuovo equilibrio
Per contrastare la carenza di ossigeno, il corpo mette in atto misure che danno luogo a un aumento della frequenza cardiaca, della frequenza respiratoria, della pressione arteriosa e polmonare. Altra conseguenza è la riduzione dell'ossigeno e dell'anidride carbonica nel sangue e, a volte, la comparsa di apnee del sonno.
Come comportarsi dunque per non correre rischi? La risposta arriva da una serie di ricerche, condotte a partire dal 2004 da Giancarlo Parati, professore di Medicina cardiovascolare all'Università di Milano-Bicocca e direttore dell'Unità operativa di cardiologia dell'Auxologico San Luca di Milano e dalla sua equipe, che si sono tradotte in un documento di consenso - Raccomandazioni cliniche per l'esposizione ad alta quota di individui con condizioni cardiovascolari preesistenti - recentemente pubblicato dalla rivista European Heart Journal.
I progetti HighCare sono stati condotti per 13 anni, attraverso esperimenti e studi in alta quota in varie parti del mondo, Everest compreso, proprio per capire quali raccomandazioni cliniche e precauzioni dovessero essere riservate ai pazienti cardiopatici.
Consigli personalizzati
Prima di un'ascesa in quota è fondamentale consultare il proprio medico per valutare le proprie condizioni fisiche. Dovranno essere considerati sia gli aspetti ambientali come la velocità di salita, la quota da raggiungere e la temperatura, sia le caratteristiche personali relative ad allenamento, storia clinica, stabilità dei problemi cardiovascolari, terapie in corso ed esami diagnostici recenti. E inoltre, si dovrebbe effettuare una stima del livello di rischio cardiovascolare individuale dal momento che alcuni problemi potrebbero essere subclinici, cioè non manifesti, e prevedere un adeguamento della terapia nei soggetti più a rischio.
In generale al di là delle raccomandazioni generali, si è compreso che ogni consiglio dovrebbe essere poi personalizzato in base alle numerose variabili individuali.
Stefania Cifani
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Nuovo equilibrio
Per contrastare la carenza di ossigeno, il corpo mette in atto misure che danno luogo a un aumento della frequenza cardiaca, della frequenza respiratoria, della pressione arteriosa e polmonare. Altra conseguenza è la riduzione dell'ossigeno e dell'anidride carbonica nel sangue e, a volte, la comparsa di apnee del sonno.
Come comportarsi dunque per non correre rischi? La risposta arriva da una serie di ricerche, condotte a partire dal 2004 da Giancarlo Parati, professore di Medicina cardiovascolare all'Università di Milano-Bicocca e direttore dell'Unità operativa di cardiologia dell'Auxologico San Luca di Milano e dalla sua equipe, che si sono tradotte in un documento di consenso - Raccomandazioni cliniche per l'esposizione ad alta quota di individui con condizioni cardiovascolari preesistenti - recentemente pubblicato dalla rivista European Heart Journal.
I progetti HighCare sono stati condotti per 13 anni, attraverso esperimenti e studi in alta quota in varie parti del mondo, Everest compreso, proprio per capire quali raccomandazioni cliniche e precauzioni dovessero essere riservate ai pazienti cardiopatici.
Consigli personalizzati
Prima di un'ascesa in quota è fondamentale consultare il proprio medico per valutare le proprie condizioni fisiche. Dovranno essere considerati sia gli aspetti ambientali come la velocità di salita, la quota da raggiungere e la temperatura, sia le caratteristiche personali relative ad allenamento, storia clinica, stabilità dei problemi cardiovascolari, terapie in corso ed esami diagnostici recenti. E inoltre, si dovrebbe effettuare una stima del livello di rischio cardiovascolare individuale dal momento che alcuni problemi potrebbero essere subclinici, cioè non manifesti, e prevedere un adeguamento della terapia nei soggetti più a rischio.
In generale al di là delle raccomandazioni generali, si è compreso che ogni consiglio dovrebbe essere poi personalizzato in base alle numerose variabili individuali.
Stefania Cifani
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